giovedì 6 ottobre 2016

Il Colore Viola

The Color Purple

di Steven Spielberg.

con: Whoopi Goldberg, Danny Glover, Oprah Winfrey, Margaret Avery, Rae Dawn Chong, Willard E.Pugh, Akousa Busia, Laurence Fishburne.

Drammatico

Usa 1985













Contrariamente a quanto si possa pensare, lo status di dio in Terra che Spielberg aveva negli anni '80 non lo esimeva dal ricevere pesanti critiche; persino lui, l'uomo che aveva infranto il record di incassi del mondo, che aveva fatto rabbrividire un'intera generazione e ne aveva commosso due, non poteva sfuggire ad una pecca di facile rimprovero: il suo cinema era puro escapismo, rivolto principalmente ad un pubblico di ragazzini, privo di qualsivoglia impegno. Critica fondata: l'ultima volta che il Re Mida aveva cercato di creare una storia con un significato più o meno profondo, il risultato era stato il ben poco memorabile "Sugarland Express" (1974).
Dall'alto della sua posizione, Spielberg ben avrebbe potuto ignorare tale critica, forte di una carriera di tutto rispetto, oltre che dei più scontati numeri a suo favore; cosa che, forse per orgoglio, forse per ovviare davvero a tale pecca, non fece, decidendo di dirigere una pellicola per una volta davvero impegnata. E che impegno: a far da perno tematico fu niente meno che la segregazione razziale.
Una scelta del genere non deve assolutamente stupire; il tema razziale si era affacciato nel mondo dello spettacolo mainstream americano già alla fine degli anni '70 con la splendida e storica miniserie televisiva "Radici" (1977) e negli anni '80 sarebbe stato affrontato di petto da un'altra pellicola che ben avrebbe fatto parlare di sè, il facile "Mississipi Burning" (1988).
Trovata la tematica, la scelta del soggetto arriva di conseguenza ed è anch'essa dettata dal tempo: il romanzo epistolare "Il Colore Viola" di Alice Walker, pubblicato nel 1982 e premiato l'anno successivo con il premio Pulitzer.
L'adattamento di un romanzo pluripremiato, l'uso di un registro drammatico (o para-drammatico, nei fatti), il coraggio di mostrare una violenza esplicita su schermo paradossalmente portano Spielberg a creare uno dei suoi film meno riusciti: "Il Colore Viola" è un film "impegnato" solo nelle intenzioni, poche volte nel modo in cui maneggia i contenuti e talvolta neanche nella forma, un'opera malriuscita e a tratti ridicola, in fondo nemmeno più matura di nessuno dei film di intrattenimento che che aveva diretto in precedenza.






"Il Colore Viola" è una storia sull'emancipazione, sui maltrattamenti subiti da una povera donna (Celie, interpretata da un'esordiente e bravissima Whoopi Goldberg) sullo sfondo dell'America dei primi del '900. Non tanto un racconto sul razzismo, quanto un pamphlet sulla necessaria indipendenza e parità tra sessi.
Celie è la vittima: donna di colore, sottoposta sin dalla tenera età agli abusi, anche sessuali, del padre, solo per poi essere venduta ad un marito (Danny Glover) ottuso e violento. Suoi opposti sono altre due donne: l'emancipata Shug (Margaret Avery) e la forte Sofia (Oprah, anch'ella esordiente); la prima è uno spirito libero, in grado di sottomettere da sola più di un partner, che trova nel canto la sua affermazione e che riesce, con l'amore e la comprensione, a far uscire Celia dal suo guscio di oppressione; la seconda è invece protagonista di un arco antitetico a quello della protagonista: da donna dalla forte fibra fisica e morale si ritrova spezzata nel corpo e nello spirito, salvo poi ritrovare sé stessa proprio grazie alla forza di Celia.
La loro è una storia di soprusi, di oppressione causata prima di tutto dalla figura maschile e poi da quella del "bianco", il quale resta in fin dei conti sempre sullo sfondo. L'uomo è qui essere tirannico, volitivo, genuinamente stupido. La segregazione impedisce ai più di formarsi, di avere una cultura salvifica (situazione opposta a quella dei missionari in Africa, che tramite l'alfabetizzazione emanciperanno i figli e la sorella della protagonista), creando una società sporca, dove gli esseri incapaci di provvedere ai propri bisogni vengono lasciati a sé stessi (Albert, abbandonato da Celia, cadrà presto in disgrazia, non essendo in grado di badare alla casa).
Un mondo dove solo l'affermazione di sé può portare al riscatto, dove il rispetto va urlato, dove non c'è spazio per i compromessi. Al massimo solo per il perdono, per una riappacificazione nell'istituzione familiare (che come sempre nel cinema di Spielberg è elemento necessario, anche quando può essere fucina di abusi) o per una redenzione finale.






Laddove il film sbaglia è nella scelta dei toni, quasi sempre sbagliati. Spelberg usa un registro comico e sognante, immerge le situazioni più drammatiche in contesti spesso farseschi, taglia tutti i personaggi con l'accetta ed inserisce inserti umoristici a iosa. L'atmosfera non è mai plumbea o opprimente, non si riesce ad avvertire il dramma di Celie, la sua paura costante nel vivere sotto lo stesso di Albert, né a temere per la sua incolumità.
La scelta di caratterizzare il marito aguzzino come un idiota nemmeno troppo violento fa scadere il tutto nella pantomima; è come se questi personaggi non fossero mai delle persone, ma solo delle figurine, dei "pupi" in una ricostruzione da strada delle vicende.
L'umorismo dà la stoccata finale: a tratti sembra di assistere ad uno spettacolo di vaudeville dove i personaggi di colore sono tutti delle caricature con la faccia dipinta, degli "adorabili idioti" impegnati in risse che ricordano quelle di "1941" (1979), in triangoli di amore e gelosia da operetta o in scene di abuso da telenovela.
Non si riesce mai a prendere le vicende di Celie e soci sul serio: il dramma latita, annacquato in una narrazione distratta, goffa nei toni, troppo impegnata a stemperare i risvolti più drammatici; finendo per diventare una parodia involontaria di sé stessa. Tanto che l'unica sequenza a non risultare fredda o ridicola è quella in cui la protagonista decide finalmente di emanciparsi, rara concessione alla serietà in 134 minuti di pellicola.





Ed il fatto che Spielberg si sia deciso a fare il film per provare di non essere un ragazzino troppo cresciuto appare ironico: il suo atteggiamento è proprio quello di un bambino che dinanzi ai problemi e alle brutture della vita cerca di rifugiarsi in un mondo fatato, dove ogni orrore non è poi così brutto se filtrato per il tramite giusto. Tanto sarebbe valso, alla fine, restare a fare "film per ragazzini" (o presunti tali, vista la loro caratura effettiva) nei quali dimostrava una maturità molto maggiore.

2 commenti:

  1. Concordo con la tua analisi, è un film non orrendo ma neanche riuscito veramente, un tentativo di uno Spielberg ancora non abbastanza maturo per temi simili. Tra i suoi film è quello che amo di meno

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    1. In compenso è riuscito a fare di peggio: anche "Always" e "War Horse" sono orripilanti senza appello.

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