martedì 9 febbraio 2021

Malcolm & Marie

di Sam Levinson.

con: Zendaya, John David Washington.

Usa 2021





















C'è tanto Godard in "Malcolm & Marie", tanta voglia di inseguire i personaggi in uno spazio chiuso per metterli di fronte ai propri limiti, sia personali che di coppia; così come ci sono rimandi a John Cassavetes, come il bianco e nero che pare uscito dritto dritto da "Ombre", e persino una strizzatina d'occhio al Kubrick di "Eyes Wide Shut". C'è la voglia, urlata a squarciagola, di un cinema intimo e autoriale, forse fin troppo, tanto che alla fine tutto diviene artefatto, fasullo, perfettamente messo a fuoco e inquadrato, magnificamente interpretato e per questo sempre e comunque falso. Un falso che, cosa inescusabile, appare sempre tale e si palesa soprattutto quando Sam Levinson tenta di intrecciare un discorso sul cinema con quello sulle relazioni, creando un kammerspiel bello e inerte.


La storia, al solito, è semplice: dopo la trionfante premiere del suo ultimo film, il regista indie Malcolm (John David Washington) rincasa con la fidanzata e musa Marie (Zendaya) e tutta la tensione rimasta sotto pelle durante la serata esplode con forza, portando i due ad un confronto serrato sulle mancanze reciproche.
Sembra di vedere una versione moderna della sequenza centrale de "Il Disprezzo": il rapporto di coppia crolla sotto il peso del non-detto, delle azioni date per scontate quando invece portano con se implicazioni enormi sul piano emotivo e del rancore a lungo sopito ma mai dissolto. Levinson, come Godard, si diverte a seguire questa coppia di artisti, regista lui, modella e aspirante attrice lei, mentre si rincorrono tra le quattro mura domestiche, usando talvolta movimenti di macchina cesellati al millimetro, talaltra e più spesso una camera a mano che ne vorrebbe inglobare i volti.


La descrizione di un rapporto malato e a pezzi risulta credibile. Malcolm viene accusato di essere un manipolatore, un uomo che carpisce la vita altrui e la rielabora per fini personali, per creare quel cinema fatto di emozioni portato in scena da chi, borghese agiato, quelle emozioni non le ha mai provate, un cinema fatto di drammi mai vissuti ma rubati dal partner di turno. Marie viene accusata di essere un'egocentrica, una donna che deve avere su di se tutte le attenzioni del caso, ma che non vuole sopportarne le conseguenze. Il rapporto che li lega, dapprima in crisi, esce rafforzato dal confronto violento tra i due, i quali imparano come proprio quelle differenze e quei difetti che si rimproverano a vicenda sono ciò di cui la loro attrazione si nutre. Non si assiste, così, ad una dissoluzione, quanto ad una rinascita dell'attrazione.


Se il confronto tra i due personaggi è vivo e credibile, il merito è soprattutto degli attori; e se John David Washington non fa altro che confermare un talento del quale aveva già dato prova, la rivelazione è Zendaya, qui quanto mai bella ed espressiva, una perfetta maschera drammatica che incapsula le emozioni per lasciarle esplodere un po' alla volta, riuscendo sempre a colpire. Meno ispirati sono i dialoghi, talvolta apertamente didascalici, tradendo una teatralità di scrittura troppo ingombrante.
La descrizione dei personaggi, alla fin fine, riesce, cosa che non si può dire del discorso meta-cinematografico.


Malcolm è un artista di colore in un mondo che sembra dare spazio agli artisti di colore per puri motivi politici. Sam Levinson affronta a volto aperto l'ipocrisia di un sistema hollywoodiano che celebra artisti solo per moda (si fa il nome di Spike Lee, ma per ovvi motivi è quello di Barry Jenkins che pesa di più). Allo stesso modo, viene lanciato un j'accuse contro tanta critica snob che elogia la veridicità delle storie senza saperne percepire il racconto per il quale vengono narrate: tanta enfasi, nelle recensioni, è posta su personaggi e trama, davvero poca sulla messa in scena.
Critiche urgenti e condivisibili, ma che cascano a vuoto quando si tiene conto che Levinson, per quanto suoni brutto sottolinearlo, non è un regista di colore e Malcolm non è un suo doppio. Levinson è un bianco e per quanto giusto e sensibile possa essere, un discorso del genere fatto da lui risulta, per forza di cose, artefatto, un puro sfogo incapace di generare un vero dibattito o anche una minima catarsi su di un argomento scottante.


Il racconto finisce così per afflosciarsi senza colpire davvero. Levinson ha la mano abbastanza ferma, soprattutto come regista, ma questo non basta a rendere davvero memorabile quello che, alla fin fine, non è altro che un pastiche autoriale anche un po' compiaciuto.

2 commenti:

  1. Compiaciutissimo, ma con l'intento di esserlo, almeno credo. Loro due fantastici davvero. Io mi sono emozionata e contemporaneamente a tratti profondamente annoiata per tutti i pipponi un po' troppo egoriferiti sul rapporto tra autori e critici. Ma del resto non è che Levinson volesse suggerire che il rapporto tra autori e critici, appunto, è un "amore" complesso così come quello tra Malcom & Marie? Chissà...

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