con: Demi Moore, Margaret Qualley, Dennis Quaid, Edward Hamilton Clarke, Gore Abrams, Oscar Lesage, Hugo David Garcia.
Regno Unito, Francia 2024
Revenge rappresenta in un certo senso il manifesto del cinema di Coralie Fargeat. Un cinema dove nulla è davvero originale e dove temi, messaggi e morale sono già stati decantati decine di altre volte in decine di altri film. Ma questo è per forza un difetto capitale?
The Substance è la risposta a questo quesito, che si traduce in un trionfante no.
Cosa rende The Substance più riuscito di Revenge? In realtà quasi nulla, dove quel quasi sta nel fatto che riesce ad avere un'identità sua la quale non è la semplice somma delle singole fonti di ispirazione.
Fonti di ispirazione palesi che sono molteplici e che non occorre neanche citare tutte; basti sapere che siamo in una zona tra Cronenberg (sia David che forse soprattutto Brandon) e Nicolas Winding Refn e nella quale l'immortale Shining di Kubrick sembra essere un testo sacro. La Fargeat non si limita però a riproporre ciò che le piace, ma lo ricrea fino a dargli nuova forma. Una forma sua e per certi versi unica, tanto che possiamo tranquillamente dire di non essere dalle parti di Don't Worry Darling, per fortuna. E questo a partire da come affronta la tematica del corpo femminile.
Perché The Substance, prima ancora che una critica all'ossessione per la bellezza, è un horror sugli orrori della vecchiaia, sul terrore di diventare obsoleti, sul ribrezzo causato da un corpo non più giovane. In tal senso, il casting di Demi Moore per la protagonista Elisabeth, punto di vista e motore di tutta la trama, è semplicemente divino: ex bellissima distrutta dalla chirurgia estetica già da giovane (fece scandalo il suo seno rifatto a poco più di trent'anni, che ne deturpava il corpo in modo ignobile), è ora una donna anche affascinante ma che porta sul suo viso i segni di un'ossessione ai limiti del diabolico.
Il tempo tiranno porta al decadimento, il decadimento porta all'oblio, almeno nel mondo dello show business: se non sei giovane non sei attraente, se non sei attraente non fai audience, se non fai audience non sei un prodotto che valga la pena vendere al pubblico, da cui la necessità di ringiovanire, creare letteralmente un nuovo sé da dare in pasto agli spettatori. Fino a qui, la Fargeat non fa davvero nulla di inedito o particolarmente radicale. La novità è però insita nel modo in cui guarda a questa sua protagonista.
Elisabeth, così come il suo doppio Sue, è una narcisista, una donna ossessionata dal proprio apparire e letteralmente drogata delle attenzioni che il pubblico le rivolge. La Fargeat qui prende una posizione che oggi può apparire scandalosa: si, il sistema che impone alle donne di essere sempre e solo giovani e belle è orrendo e si, i patriarchi allupati che vogliono divorare quei corpi giovani e tonici sono certamente grotteschi e disgustosi. Ma il biasimo va posto anche su quelle persone che provano piacere ad essere guardate, che godono nel sapere che la loro immagine mette l'aquilina in bocca ad un pubblico affamato di sesso, che provano orgoglio nel sapere che il loro corpo è un puro oggetto da consumare con gli occhi.
Da cui l'ossessione della cinepresa per il corpo della Qualley (ma anche per quello della Moore, che al di là di tutto è ancora oggi attraente), il cui sedere diventa il protagonista assoluto del film, quasi uno sberleffo alle polemiche, vecchie e nuove, sul "male gaze" al cinema che sembra uscito da un trip in acido di Tinto Brass.
L'ossessione per la giovinezza è esternazione di narcisismo, l'incapacità di accettare i limiti della natura porta solo all'orrore. Nel finale, la Fargeat si dimostra coerente con quanto fatto nel suo esordio e ci delizia con un tripudio di body horror estremo e grottesco, un trionfo di carne spappolata e corpi deformati, praticamente un Tetsuo con polpa umana al posto del ferro.
Si può poi obiettare che la sua scrittura sia didascalica e tutto sommato trita e ritrita e come, di conseguenza, il premio ottenuto a Cannes sia stato frutto di una sopravvalutazione. Ma in fondo il grande pregio di The Substance sta proprio lì e risiede nel modo in cui l'autrice si pone nei confronti del pubblico: mai paternalistica o supponente, mai accusatoria verso chi osserva e chi vuole osservare, con una onestà intellettuale che di questi tempi vale davvero più dell'oro.
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