venerdì 21 giugno 2013

Tokyo Fist

Tokyo Kèn

di Shinya Tsukamoto

con: Shinya Tsukamoto, Kaoru Fujii, Koji Tsukamoto, Naomasa Musaka, Naoto Takenaka.

Giappone (1995)




Nel 1995, con “Tokyo Fist”,  Tsukamoto porta a compimento il suo personale discorso sulla modernità iniziato con "Tetsuo" (1989) e proseguito con il suo seguito "Tetsuo II- Body Hammer" (1992); la civilizzazione sopprime la carne: un mondo fatto di cemento e metallo trasforma i muscoli e le ossa in corpi estranei e fa assopire i sensi dell’essere umano; se in “Body Hammer” è il metallo a fungere da catalizzatore per il risveglio degli istinti, in “Tokyo Fist” è il martirio della carne a risvegliarli: il pugilato diviene strumento ideale per ridare una sensazione al cervello, per far risvegliare le funzioni corporali e sessuali che la quotidianità alienante cerca di annullare.


Ogni pugno ricevuto, ogni ferita aperta, ogni dente sputato è per l’autore metafora dell’energia che torna a scorrere; energia intrinseca all'essere umano, che però viene soppressa dal lavoro nella metropoli che stritola l’individuo e ne annichilisce gli impulsi; non per nulla Tsuda, interpretato , al solito, dallo stesso regista, in passato aveva cercato di vendicare violentemente lo stupro di una ragazza, esternando in maniera diretta e genuina la rabbia e la violenza provata; e per risvegliare tali sensazioni Takuji, suo rivale, interpretato dal fratello di Shinya ed ex pugile, usa un pretesto simile: seduce la sua fidanzata per risvegliarne la rabbia repressa, per farlo tornare ad essere umano, dopo averlo ritrovato, dopo svariati anni di oblio, ad un’ameba, un essere floscio e represso, la cui corporalità è talmente frustrata da scandalizzarsi da una foto in costume della ragazza.


Proprio il personaggio di Hizuru è l’altro polo metaforico usato dall’autore: a differenza degli uomini, il martirio che lei impone al suo corpo è totalmente gratuito e fine a sé stesso, concretizzandosi in piercing e tatuaggi che ne sfregiano il corpo; il dolore dato dall’innesto del metallo (come in Tetsuo) e dell’inchiostro ne risvegliano i sensi più dell’atto sessuale: non per nulla, durante la convivenza con  Takuji consuma un unico rapporto sessuale, nel quale il piacere viene raggiunto solo quando questi le morde voracemente l’anello che ha sul capezzolo; nel finale, inoltre, decide di autodistruggersi maciullando definitivamente il suo corpo: raggiungere il piacere definitivo con la morte, il martirio definitivo, auto-inflitto ed auto-compiaciuto, un giudizio, per molti, ai limiti della misoginia visto il sesso del personaggio, ma che in realtà simboleggia solo una forma di devianza propria dell’interna civiltà moderna.


Per Tsuda, invece, è la distruzione del corpo altrui ad essere celebrazione dei sensi: la rivalità con Takuji lo porta a riscoprire la sua corporalità e a spingerla ai massimi limiti per trionfare; tant’è che nel finale, in ossequio ai vecchi codici guerrieri, il rapporto tra i due diviene simbiotico grazie ai colpi scambiati: i loro corpi si fondono, idealmente, ma non fisicamente, e il male subito dall'uno si riverbera nella carni dell’altro, poiché divenuti, entrambi, pari nella coscienza dei sensi.


Per colpire ancora più nel profondo i sensi e il cervello dello spettatore, Tsukamoto estremizza il suo stile: i grandangoli sono ancora più stroboscopici, ai limiti del fish eye, la profondità delle immagini è incredibile, il montaggio ancora più serrato e ai limiti del subliminale; la composizione delle singole inquadrature, in particolare degli innesti fotografici, è ammaliante: forme umane letteralmente schiacciate dai palazzi e dalle strade sopraelevate e file infinite di appartamenti di cemento bianco si susseguono e si rincorrono in montaggio spezzato, frammentario e a-logico, che si insinua inesorabilmente nella psiche di chi guarda; l’intera narrazione diviene così un pugno sferrato dritto ai sensi, mentre la mente viene ammaliata dai cromatismi della fotografia, anche qui basata sul blu freddo, simbolo dell’assopimento, e da un rosso caldissimo, che sottolinea invece il risveglio della carne anestetizzata.



Al quarto lungometraggio da regista, Tsukamoto conferma le sue doti di autore ed artista: “Tokyo Fist” è uno dei suo capolavori più riusciti, nonché l’ultimo film “a tesi” del regista; dal successivo "Bullet Ballet" (1998), infatti, l’autore tenderà ad abbandonare il simbolismo puro in favore di una narrazione più articolata e, soprattutto, di un’empatia totale (o quasi) verso i suoi personaggi.

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