sabato 24 giugno 2017

Due o tre cose che so di lei

2 ou 3 choses que je sais d'elle

di Jean-Luc Godard.

con: Marina Vlady, Anny Duperey, Roger Montsoret, Raoul Lévy, Jean Narboni, Christophe Bourseiller.

Francia 1967


















Il linguaggio è disciolto, smembrato, fatto a pezzi per farsi fluido confluire di pensieri; al pari dell'idea (forse ideologia?) che segna Godard. E' l'anno del Signore 1967: la Guerra del Vietnam ha già sconvolto la mente dell'autore; l'amore per Anna Karina è finito, il rapporto dissolto. E sopratutto, la Parigi da lui tanto amata, riverita e conosciuta, quella che aveva filmato in "A' Boute de Souffle" si sta trasfigurando in una città altra, un altro dove in un altro quando.
Da qui la crisi, esistenziale, ideale e linguistica che impressa su pellicola prende il nome di "Due o tre cose che so di lei".
Dove "Lei", in ossequio alla crisi di significati e significanti, è sia Marina Vlady, musa "temporanea" che illumina la macchina di presa di Godard, sia Parigi, il cui volto oramai è irriconoscibile. La Vlady di cui Godard si innamora con un colpo di fulmine e che cerca di sposare, non trovando però successo e che quindi resterà un fulmine a ciel sereno nella sua vita e nella sua opera. La Parigi, luogo natio, che raramente ha abbandonato e dalla quale ora si sente tradito a causa del suo mutamento.
Palazzoni di cemento armato dalle forme minacciose, linee geometriche dalla rigidità totalitaria, poligoni di pietra e vetro che si stagliano intorno ai personaggi. Il luogo sembra quello alienante di "Alphaville", come se l'incubo ammazzaemozioni si sia concretizzato. Nel mezzo, il caos dei cantieri che squarciano la città per riplasmarla in qualcosa di nuovo, o meglio di altro.




"Altro" che è già di per sé immagine; l'architettura moderna, nel suo ossessivo disconoscimento di forme decorative, crea solidi praticamente bidimensionali, che già all'occhio di uno spettatore nel mondo tridimensionale appaiono come semplici immagini, prima ancora che la macchina da presa le trasformi in una visione "piatta", ossia da proiettare su di un telo. Ne consegue una forma di inutilità di quella spasmodica ricerca dell'inquadratura. Che, tuttavia, Godard ignora coscientemente per creare immagini al solito forti e profonde. Immagini che guardacaso come quelle di "Alphaville" finiscono per essere menzogna nella menzogna, anche se per motivi diversi





Ma crisi identitaria della città è solo lo specchio deformato e deformante di quella intellettuale. L'America è la nuova Germania ("America uber alles"), della quale Godard, ancora scottato per l'amore per quel cinema e quella cultura che lo ha prodotto, preconizza la futura Apocalisse già in apertura. La Terza Guerra Mondiale, i bombardamenti di Pechino per piegare inutilmente Hanoi, la paura di una Fine o quella più tangibile della trasfigurazione, anche qui, di un mondo un tempo amato spaccano la visione e vi si insinuano.




Ne consegue una totale mancanza di punti di riferimento: è caos puro quello che Godard porta su pellicola. Il linguaggio è cedevole, tradisce e viene tradito. La macchina da presa può decontesualizzare parole per creare (cercare sinanche) significati non voluti. Ne consegue, ancora, la totale impossibilità di discernere il reale nell'immagine, ma ancora prima l'impossibilità di discernerlo già attraverso il linguaggio, che è per sua stessa definizione semplificazione del reale, ossia una forma malcelata di mistificazione.
La ricerca diviene così una spirale che ruota su sé stessa, da qui l'immagine ipnotica della tazzina di caffé con la voce off di Godard che sottolinea come il linguaggio è limite intrinseco nell'esplorazione del reale.




Il racconto finisce così per sfaldarsi sin dall'inizio. "Lei" è al contempo Marina Vlady, attrice (dalla bellezza accecante) di origine russe e Juliette Jeanson, ragazza parigina di origini russe costretta a fare la vita. La differenza (su schermo)? L'angolazione di inquadratura, un mero punto di vista nel quale, ancora, lo sfondamento della quarta parete toglie ogni forma di veridicità e al contempo di falsità. L'immagine finisce così nuovamente per essere duplice mistificazione.
Ed il mondo in cui le due "Lei" gravitano è al contempo perso nella contemplazioni di oggetti che sono essi stessi immagini. La cultura del consumo crea una versione fittizia del benessere da vendere un tanto al chilo al consumatore, che abbocca agli slogan ed ai colori sgargianti delle reclàme nella speranza di migliorare la propria vita. Speranza vana: la vita moderna si piega sulla ripetizione di piccoli gesti quotidiani; e, sul lungo periodo, nell'ottica del consumismo capitalista, nello sfruttamento. Laddove l'uomo sfrutta l'uomo, la prostituzione diviene grado zero della società dei consumi, poiché lo sfruttamento della merce umana è negozio diretto, non mediato per il tramite del prodotto, del salario, del rapporto lavorativo.




"Orrore" al quale nemmeno la dottrina comunista sembra poter davvero rimediare: è qui che Godard tira il primo affondo ai moti sessantottini che distruggerà in anticipo nel conseguente "La Cinese". Il dialogo con lo scrittore comunista porta alla luce la sudditanza psichica della generazione dei "giovani" che vedono nella rivolta rossa una soluzione, ma che in realtà non si accorgono delle contraddizioni del sistema che agognano.




La decostruzione filmica e linguistica giunge così ad una nuova tappa, a nuova completezza. Il pessimismo di Godard è qui ad uno dei culmini, tanto che chiude il film con un altro affondo, ancora più sferzante, verso quella società dei consumi che oblitera ogni riflessione, ogni vera urgenza e necessità dell'individuo sotto le sue immagini, i suoi prodotti inutili, i suoi colori vomitevolmente sgargianti, con le scatole disposte come lapidi su di un prato, a segnare la morte prossima di una società assimilata al e dal mero prodotto di consumo di massa.

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