lunedì 6 marzo 2023

The Whale

di Darren Aronofsky.

con: Brendan Fraser, Sadie Sink, Ty Simpkins, Hong Chau, Samantha Morton.

Drammatico

Usa 2022















---CONTIENE SPOILER---

Il cinema di Darren Aronofsky oscilla costantemente tra la fascinazione filosofico-religiosa e l'attrazione per i piccoli drammi umani, ragionando alternativamente tra i massimi sistemi e l'interiorità pura. La sua ultima fatica, "Madre!" rientrava nel primo filone, quindi è normale che il film successivo rientrasse direttamente nel secondo.
E "The Whale", come il pluriacclamato "The Wrestler", si rivela un dramma sorprendente con al centro un personaggio umano e dolente superbamente interpretato da un ritrovato Brendan Fraser, anche se purtroppo non privo di qualche imperfezione.



Il paragone con "The Wrestler" è poi fin troppo calzante. Anche questa è la storia di un uomo caduto in disgrazia e di come ritrovi un ultimo afflato di vita prima di una "sublimazione", dato anche (qui totalmente) dal ritrovato rapporto paterno con una figlia che aveva abbandonato; e proprio come in "The Wrestler", anche in "The Whale" uno dei punti più riusciti è dato dall'interpretazione di un attore protagonista ex divo ora ritrovato, qui un Brendan Fraser che da quella che, almeno fin ora, è la performance della vita. Le differenze sono ovviamente date dalla scrittura, dalla messa in scena e dalla riuscita effettiva.
Qui Aronofsky porta in scena un dramma teatrale di Samuel D.Hunter, dai forti echi autobiografici; al centro di tutto c'è il personaggio di Charlie (Fraser), professore di letteratura che insegna in DAD senza mai rivelare il suo aspetto agli alunni, quello di un uomo di oltre 300 chili. Assistiamo così ai suoi ultimi giorni di vita, caratterizzati dall'incontro con Thomas (Simpkins), giovane appartenente ad una chiesa protestante in cerca di proseliti, dalla riunione con la figlia Ellie (Sadie Sink), che aveva abbandonato quando lei aveva otto anni, oltre che l'amicizia con l'infermiera Liz (Hong Chau).




Si potrebbe scomporre la narrazione in tre strati, tutti e tre complementari.
Su di un primo livello, Aronofsky porta in scena la dannazione di un uomo che ha deciso di autodistruggersi. Charlie è una persona che ha deciso di sacrificare tutto per amore, non tanto quello della famiglia, quanto quello per quell'amore scoppiato all'improvviso e mai sospettato per Alan; un amore talmente grande che alla morte di questi, l'unico modo per elaborare il lutto è stato quello di distruggere il proprio corpo tramite la voracità alimentare. Prigioniero di un involucro che è divenuto una prigione, incarnazione esteriore di una  prigionia mentale che lo ha portato a restare impantanato nel dolore senza mai superare la perdita, il quale è a sua volta prigioniero di una casa, ambiente unico dell'azione in un kammerspiel che però non tenta mai di giocare la carta della claustrofobia (escludendo ovviamente il ricorso al formato dell'immagine in 4/3 per accentuare gli interni angusti).
Aronofsky, di converso, resta ancorato al personaggio e ai suoi subordinati. E nel mostrare la deriva nauseabonda di quegli strati di grasso, del sudore grondante, delle abbuffate usate per tentare di sopprimere uno spleen incontenibile, dimostra una sensibilità più marcata di quanto si possa pensare: non insiste mai sui dettagli rivoltanti, inquadra il fisico sempre alla giusta distanza e senza insistere sui risvolti repellenti persino quando deve portarne in scena i fluidi corporei. Tanto che le solite, stupide, polemiche di body shaming risultano al solito mal formulate.



Su di un secondo livello c'è la descrizione del rapporto interpersonale, sia quello di Charlie con i suoi ospiti che quello tra di loro. Perno principale è ovviamente quello con la figlia Ellie, che Sadie Sink interpreta con il giusto fervore, ruolo che le permette di dimostrare le sue capacità di attrice benché ricada pur sempre nel cliché dell'adolescente problematica. E perno di questo rapporto è a sua volta il senso di colpa per l'abbandono per il padre e la rabbia per la figlia. Il percorso non è tanto quello di una riappacificazione, quanto quello di una comprensione: da un lato Charlie cerca di capire una figlia che non ha mai davvero visto e che crede migliore di quello che in realtà sia, dall'altro Ellie arriva a comprendere la scelta di un genitore che ha si le sue colpe, ma che le sta scontando in modo fin troppo salato. Tanto che alla fine non conta davvero se Ellie sia davvero buona o cattiva, se le sue azioni siano rivolte ad aiutare il prossimo piuttosto che a distruggerlo, quel che conta è che Charlie riesca davvero a fare breccia nella sua anima e a farle comprendere l'importanza di avere una coscienza propria che non si sostanzi unicamente nello sdegno o nel cinismo spicciolo.



Allo stesso modo, i rapporti interpersonali con gli altri personaggi divengono fonte di conoscenza e maturazione. Thomas, membro della chiesa "New Life" (ma nella piéce originale erano semplici Mormoni, cambio forse dovuto alla religiosità dell'autore) usa il rapporto con Charlie per dimostrare di essere in grado di poter salvare qualcuno, il quale, ai suoi occhi, è vittima di una vita priva di Dio che lo ha portato all'omosessualità, ossia un peccato mortale. Ma alla fine è lui che deve comprendere come tale scelta di via non sia una forma di dannazione e come il perdono, quello vero, sia altro, come quello che alla fine gli viene concesso dai genitori, che aveva abbandonato al seguito di un furto alla chiesa.
Liz, in apparenza personaggio positivo, si disvela, grazie al confronto con Thomas, come una figura più sinistra di quanto possa inizialmente apparire; durante la prima metà del film la vediamo preoccuparsi per il suo migliore amico, ma al contempo la vediamo perorare le sue pulsioni golose, contribuendo alla sua distruzione; solo per poi comprendere come questo sua atto sia una forma di surrogazione per tentare di sopprimere il dolore della perdita, quella di Alan, il quale era sua fratello, che a differenza di Charlie era stato colpito da una forma di anoressia depressiva che lo ha poi condotto al suicidio. 



All'interno di un dramma "classico", Aronofsky riesce lo stesso a far confluire la sua passione filosofica e a fare sue alcune riflessioni di Samuel D.Hunter.
"The Whale" porta a riflettere sulla genuinità del pensiero, su come sia essenziale non lasciarsi manipolare dalle aspettative altrui. La propria identità e le proprie opinioni non devono essere celate, edulcorate o artefatte per venire incontro ai canoni di pensiero predominanti, il pensiero genuino, benché superficiale ed esposto in maniera spicciola, è sempre quello migliore.
La religione, di conseguenza, non deve essere usata come strumento per riportare le persone dentro quei canoni a noi congeniali; la volontà di "salvare" qualcuno rendendolo simile a noi o inculcandogli pensieri non suoi altro non è che atto di puro egoismo, rivolto unicamente ad affermare sé stessi a scapito di chi ci circonda.
I nostri limiti e preconcetti divengono così una sorta di Moby Dick, un mostro che ci ossessiona e che dobbiamo abbattere per poter davvero ritornare liberi, superare l'empasse umana data dall'incapacità di accettare una situazione umanamente disdicevole e ritrovare quel contatto umano dato anche e soprattutto dal confronto non filtrato con il prossimo (da cui la duplice valenza del titolo).



Aronofsky regge benissimo la storia grazie ad una messa in scena dinamica, che tra montaggio andante, primi pian espressivi e movimenti di macchina minimali ma azzeccati riesce a celare la natura teatrale del testo. Ma finisce clamorosamente per cadere negli ultimissimi secondi di pellicola con due immagini a dir poco sconcertanti.
In primis, la letterale assunzione in cielo di Charlie, che corona il suo calvario in modo ridicolo. In secondo luogo quel "paradiso del ricordo" dal quale esclude Alan, quasi a voler rileggere il testo di base in maniera omofobica, cosa che per tutto il resto della durata sembra, anzi, non voler fare.
Screzio finale che purtroppo inficia in parte la riuscita di un'opera altrimenti commovente.

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