di Werner Herzog.
con: Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, Roland Topor, Walter Landegast, Dan van Husen, Jan Groth, Jacques Dufilho.
Germania dell'Ovest, Francia 1979
Quando, alla fine degli anni '70, Werner Herzog decide di confrontarsi con il Nosferatu di Murnau, il cinema tedesco tutto era in fermento.
Si trattava di un periodo storico particolare, fortemente influenzato, ovviamente, dalla divisione della nazione tra le due superpotenze; il cinema stava attraversando un periodo di grande fecondità e aveva prodotto clamore internazionale grazie alle opere di un pugno di giovani autori la cui importanza è ancora oggi riconosciuta, ossia Wim Wenders, Edgar Reitz, Rainer Werner Fassbinder, Volker Schlöndorff, oltre che lo stesso Herzog.
Un periodo cruciale e perfetto per prendere in mano il lascito della Repubblica di Weimar e del suo fermento artistico. Un lascito verso il quale Herzog si pone in modo maturo, assimilandolo, ma anche decidendo di discostarvisi in toto.
La scelta del cast era poi pressoché scontata: il feticcio Klaus Kinski aveva appena finito di girare con lui il mitico Aguirre, Furore di Dio, mentre Isabelle Adjani era una diva esplosa da qualche anno a quella parte. Quanto a Bruno Ganz, aveva fatto il salto da attore televisivo a cinematografico giusto qualche anno prima e trovato un ottimo successo grazie al cult L'Amico Americano di Wenders, dove recitava al fianco del leggendario Dennis Hopper. Un piccolo ruolo Herzog lo regala anche al poliedrico Roland Topor, qui nei panni di Renfield.
La produzione avviene anche grazie ai capitali francesi, ma cosa alquanto strana fu il coinvolgimento della 20th Century Fox per la distribuzione internazionale: non succedeva praticamente mai che una major di Hollywood provasse interesse per produzioni europee d'autore, ma in questo caso la Fox fu forse invogliata forse dalla facile vendibilità di un progetto riguardante il celebre vampiro; per tale motivo, ogni scena fu girata in due versioni, una in tedesco ed una in inglese, portando anche a qualche discrepanza nel montaggio delle due versioni, le quali, anche se di poco, divergono l'una dall'altra.
Il lascito che poi a sua volta Nosferatu- Il Principe della Notte generò fu alquanto singolare: sarà il look glabro e dagli occhi sgranati di Kinski a diventare quello paradigmatico per il vampiro mostruoso nella cultura popolare, andando a sostituire i lineamenti storti di Max Schreck. E rivisto oggi, questo remake/omaggio può apparire in parte spiazzante, soprattutto se estromesso dalla filmografia del suo autore, ma ancora incredibilmente affascinante.
Il Nosferatu di Murnau era un horror sulla pestilenza, su di un male assoluto che finisce per affliggere una città e su di un sacrificio d'amore perpetrato da una donna. Nosferatu- Il Principe della Notte riprende tale significato e lo amplifica all'ennesima potenza.
La prima inquadratura del film è essenziale, nella quale Herzog immortala un gruppo di vere mummie. La morte è il leitmotiv di tutto il film, una morte che ammanta tutto e tutti, a partire dal vampiro.
Divenuti di dominio pubblico i diritti del romanzo di Bram Stoker, Herzog può ribattezzare i personaggi del film come le controparti letterarie, segnando così un primo allontanamento dalla fonte filmica. Orlok diventa (o torna, a seconda dei punti di vista) Dracula e il suo ruolo non è più semplicemente quello di un un demone della pestilenza.
Dracula è qui un demone sofferente, una creatura che dispensa morte in tutte le sue forme anche solo per sopravvivere, ma che è letteralmente "malato di eternità"; la sua attrazione verso la protagonista femminile (ribattezzata stranamente "Lucy" anziché "Mina", in un'inversione di nomi che in quello stesso anno sarebbe stato comune al bel Dracula di John Badham) deriva dalla sua secolare solitudine, non da un innamoramento estemporaneo o dalla semplice voglia di azzannarle il collo.
Il Dracula di Kinski è l'esatto opposto di quello di Schrek: dove quest'ultimo era imponente e minaccioso, il primo è una figura minuscola; dove il vampiro della tradizione ha un volto mostruoso talvolta virato verso un ghigno demoniaco, quello di Kinski esternalizza tutto il suo male interiore in ogni singola inquadratura con espressioni di dolore, ma sempre in modo trattenuto, taciturno. Dracula è tanto morte quanto morto, tanto latore di pestilenza quanto afflitto egli stesso da un vuoto incolmabile, al punto da non provare neanche piacere nel dispensare il male in terra.
Tale inversione si riverbera in modo deciso anche nella riproposizione delle inquadrature più famose di Murnau. La prima è quella nella quale il conte accoglie Harker al castello: se nell'originale la sua figura torreggiante e grottesca si stagliava potente sullo sfondo e camminava verso la macchina da presa, qui è un'ombra minuta ammantata in abiti nerissimi dal quale fuoriesce un volto devastato dalla solitudine.
Lo status moribondo di Dracula non lo rende tuttavia un essere meno letale. Tanto che quando Herzog decide di rifare le altre celebri immagini di Murnau, la sua figura ne esce comunque come mostruosa, come nella rielaborazione della scena nella quale fuoriesce dalla poppa della nave o quando la sua ombra si staglia questa volta contro l'intera abitazione degli Harker, a sottolineare l'invidia provata verso la comunione delle vittime.
Il distacco, forte ma non totale, con la fonte è poi curiosamente ravvisabile in altri due punti del film. La prima scena dell'originale vedeva Hellen giocare con un gattino, qui la prima scena nella casa degli Harker vede sempre dei cuccioli di gatti, i quali però giocano da soli. Il libro che Harker legge sulla leggenda dei vampiri è poi proprio lo stesso usato da Hutter, ma la sua caratterizzazione, razionale e scettica, lo portano a guardarlo non con spregio, ma con distacco.
Il lascito di Murnau viene così rielaborato, non tanto aggiornato, bensì filtrato attraverso la sensibilità propria di Herzog e il suo cinema. A tal fine, è curioso constatare come l'autore fonda il proprio stile con quello proprio della messa in scena del muto.
Una delle scene più riuscite di tutto il film è il primo incontro tra Lucy e Dracula, con il vampiro che entra nella sua stanza senza che la sua immagine venga riflessa, il tutto un'unica inquadratura praticamente statica, come nel cinema delle origini. Allo stesso modo, la recitazione di molti membri del cast è squisitamente sopra le righe, enfatizzando parole e gesti in modo teatrale, come nei casi della Adjani e di Roland Topor, che da vita ad un Renfiled grottesco e caricaturale.
Tali rimandi, costanti in tutto il film, vengono poi intercalati da scene che Herzog costruisce in modo del tutto moderno, con largo uso di camera a mano e di grandangoli. In particolare quando segue
Harker, Herzog sfoga la sua volontà di verosimiglianza, con la camera ad altezza d'uomo che pedina il personaggio mentre si perde tra le campagne della Cecoslovacchia o nei meandri del castello; quando poi deve dare vita all'incontro tra questi e gli zingari, con il racconto della tradizione di questi ultimi, Herzog adotta un approccio anche più vicino al documentario, tanto che la scena sembra uscita da uno dei suoi lavori di stampo antropologico.
Tale alternanza dei toni è paradossalmente più compatta di quanto si possa immagine e il risultato non sfocia in un tono secco, bensì in un'atmosfera sospesa, a tratti genuinamente onirica, sempre sottilmente inquietante. Che si fa poi apertamente spaventosa nella seconda parte del film, quando la peste inizia a cingere il villaggio.
E qui che Herzog decide di smarcarsi maggiormente dal modello. Le immagini della città appestata sono più imponenti ed esplicite e danno corpo ad un nichilismo totalizzante, come in quella più celebre. con la "ultima cena" degli appestati che si trasformano in ratti.
La differenza è però data anche e forse soprattutto dal modo in cui l'autore rilegge il personaggio di Lucy/Ellen: se per Murnau era una donna coraggiosa che si sacrifica per amore, per Herzog è praticamente una figura cristologica, una donna che si fa carico del male dinanzi allo scetticismo dei suoi compaesani (Van Helsing è qui un miscredente, in ossequio al Bulwer di Murnau, il cui ruolo nella storia era del tutto ininfluente), che combatte il male con l'ostia benedetta e immolandosi totalmente per per la salvezza del prossimo.
Un distacco che culmina nel finale. L'incontro fatale viene a sua volta riletto, con una sottile dose di sensualità carnale che anticipa quanto fatto da Robert Eggers. Ma soprattutto, Herzog decide di far sopravvivere il suo mostro, farlo reincarnare, in ossequio all'immortalità del mito del vampiro, uno delle creature filmiche e folkloristiche più longeve di sempre, sempre pronto a rinascere in un forma nuova e talvolta inedita, in quella splendida immagine finale perfetta cartolina di quel "cinema dell'invisibile" del grande autore tedesco.
Questo Nosferatu è così una pellicola bizzarra, soavemente stretta tra l'omaggio e l'indole autoriale, tra passato e presente. Una rilettura altamente affasciante che sa quando riprende il lascito del suo imponente predecessore e quando invece divenire qualcosa di diverso.
Se contestualizzato nella filmografia di Herzog, risalta per la sua lontananza dalla tematica comune ai suoi film di fiction dell'epoca, che sovente si focalizzavano su figure dalla statura mitologica in contrasto con le forze della natura; eppure, nell'atmosfera risulta vicinissimo a tale produzione, in particolare all'insuperato Cuore di Vetro.
Se preso a sé stesso, risulta bizzarro e affascinante, una rilettura che certamente più originale rispetto a quanto di recente da Eggers, che pur dà un'interpretazione del tutto originale alla stessa storia, che tuttavia Il Principe della Notte declina in modo ancora più autonomo, con un'estetica che pur guardando al passato ha decisamente gli occhi più puntati sul presente. Per questo, ad oltre quaranticinque anni di distanza resta una visione ammaliante.
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