mercoledì 5 febbraio 2025

La Classe Operaia va in Paradiso

di Elio Petri.

con: Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Salvo Randone, Gino Pernice, Luigi Diberti, Donato Castellaneta, Giuseppe Fortis, Corrado Solari, Flavio Bucci, Carla Mancini, Nino Bignamini, Alberto Fogliani.

Drammatico/Grottesco

Italia 1972















La sera del 19 Maggio 1972, la Palma d'Oro della 25ma edizione del Festival di Cannes viene assegnata, dalla giuria presieduta da Joseph Losey, ex equo tra Il Caso Mattei e La Classe Operaria va in Paradiso. Al contempo, Gian Maria Volonté viene insignito del premio speciale della giuria per le interpretazioni date in entrambi i film.
E' forse questo l'apice del successo del filone del cinema dell'impegno civile italiano, che qui trova non solo la massima onorificenza possibile, ma anche un doppio riconoscimento a due dei suoi autori più importanti e rappresentativi. E a due film praticamente agli antipodi.
Laddove Il Caso Mattei è un film di inchiesta che tenta di gettare luce su di un mistero della storia recente italiana, che quindi fonde come da tradizione il racconto di fiction con una scrittura para-documentaristica, La Classe Operaia è un perfetto esponente del cinema di Elio Petri, un racconto tanto grottesco quanto disperato sulla lotta di classe, che dà voce a quegli "ultimi" che tanta politica e tanto cinema fanno loro, ma che al contempo trattano spesso con condiscendenza.





















Petri, al contrario, riprende il toto la posizione del suo protagonista, Ludovico "Lulù" Massa, nomen omen da prototipo dell'operario tipo, un uomo che ha sempre lavorato e che a poco più di trent'anni si ritrova mezzo morto e bloccato nell'inferno del capitalismo.
Lulù è un uomo comune, che Petri e Volonté si divertono a tratteggiare con piglio caricaturale, ma mai dispregiativo. Un uomo per il quale il lavoro è tutto, ma che viene inevitabilmente schiacciato dai ritmi del capitalismo industriale. 
Viene introdotto come uno stakanovista che se ne infischia delle condizioni di lavoro e persino dei diritti dei lavoratori: per lui l'essenziale è l'ottenimento del bonus, quindi quella del cottimo è una realtà con la quale venire necessariamente a patti. Intorno a lui, Petri tratteggia uno scenario da Inferno dantesco: supervisori che con cronometro alla mano rimproverano gli operai per singoli secondi di ritardo, colleghi che si divertono ad insultarlo per la sua dedizione al lavoro e un padrone evanescente, che compare di tanto in tanto come un fantasma per non lasciare traccia dietro di sé.


















Per Petri il problema non è la fabbrica, ma il sistema capitalistico di per sé stesso. Un sistema che riduce le persone ad ingranaggi, che le sfrutta dando loro il minimo indispensabile e che addossa loro ogni errore del processo produttivo. 
La dinamica è quella classica del marxismo, con l'essere umano ridotto ad uno strumento di produzione: vediamo Lulù nella prima scena svegliarsi anzitempo perché non riesce a dormire, essendo i suoi ritmi vitali ormai tarati sui processi produttivi. Per tutto il film non solo ammette di essere "alienato" rispetto al bene che produce, ma persino di subire di deficienze sessuali, tanto che per sopportare il ritmo del lavoro finge che l'attività produttiva sia quella sessuale. Quando poi finalmente riesce a superare il blocco, quello che ottiene è un puro sfogo, con la giovane collega a lungo agognata, appena deflorata, che si chiede dove sia l'amore. L'amore, ovviamente, non può esistere in una realtà dove esistono solo le logiche del profitto e della produzione.




















Lulù viene così caratterizzato non come una semplice vittima, ma come un sopravvissuto, un uomo che cerca di ottenere il meglio dall'inferno della fabbrica. Situazione che ovviamente si capovolge quando resta ferito e abbandonato a causa del lavoro, ritrovandosi isolato e per questo ovviamente arrabbiato.
Nel dipingere i rapporti tra lavoratori, sindacati e contestatori, Petri adotta un punto di vista che non ci sarebbe aspettato da lui, membro di prima fila di Lotta Continua: adotta difatti un vero e proprio distacco, finendo persino per allontanarsi dalla figura degli studenti agitatori. La sua simpatia è tutta verso i proletari, verso quei Lulù che vengono strumentalizzati dalle lotte sindacali, usati come bandiera dai contestatori, ma il cui dramma resta sempre e solo il loro.
Ne emerge una disillusione cinica persino verso la lotta violenta, verso quelle attività sovversive sessantottine che proprio nei primi anni '70 cominciavano a mostrare i loro risvolti più turpi.



















Una disillusione che si estende poi verso tutta la società civile. Da antologia il ritratto che Petri dà dell'istituzione famigliare, devastata dall'alienazione moderna, con coppie che scoppiano, famiglie allargate fatte di figli naturali che quasi non riconoscono i padri e figli putativi che per forza di cose vi si avvicinano di più.
In questa società abbruttita dal capitalismo, basata sullo sfruttamento del più debole da parte del più forte e dove ogni legame diventa irrimediabilmente freddo, l'unico valore oltre quello del guadagno è quello del consumismo. Da antologia sono anche quelle immagini, oggi fin troppo fulgide, di telespettatori ipnotizzati davanti alla luce bluastra del televisore, con la sigla del Carosello che ne richiama l'attenzione come lo squillo della tromba del padrone; e quei feticci disneyani che assediano la casa di Lulù, tra i quali il più opprimente è ovviamente Zio Paperone, maschera edulcorata del magnate menefreghista.
In uno slancio definitivo di pessimismo, Petri propone un'unica soluzione a tale inferno: la pazzia. E' il personaggio di Salvo Randone, Militina, l'unico ad aver trovato una forma di quiete; quel Paradiso che nel finale Lulù vorrebbe occupare forse è solo un manicomio, una forma di distacco definitivo, di alienazione pirandelliana dalla realtà, il fuggire dalla società per rifugiarsi in un luogo della mente dove la logica dello sfruttamento non esiste perché gli uomini non sono più in grado di produrre nulla.


















Il cinismo esasperato si traduce in una messa in scena quantomai secca. La fotografia del fido Luigi Kuveiller evita qualsiasi forma di vera spettacolarizzazione, le inquadrature sono sempre dirette, create con il fido obiettivo zoom e movimenti di macchina rapidi, restituendo una sensazione di verosimiglianza, quella del trovarsi al fianco dei lavoratori anche quando la ripresa non è ad altezza d'uomo. Se il tono è sovente sopra le righe, anche grazie alla graffiante interpretazione di Volonté, quando la scena è ambientata in fabbrica l'atmosfera è sempre realistica, in ossequio alle ataviche origini neorealistiche degli autori.
Il risultato è un ritratto tanto veritiero quanto acido, in grado davvero di portare ad una catarsi totalizzante verso l'orrore dell'umano sfruttamento e il dramma esistenziale di una classe lavorativa da sempre allo sbando.


















Quanto al lascito del film, esso è più complesso di quanto si possa pensare.
Accolto all'uscita da feroci critiche anche da parte della sinistra radicale, la quale accusava Petri di aver sbagliato nel dipingere la lotta di classe dal punto di vista del singolo anziché dell'intero proletariato (dimostrando in pratica di non aver capito una virgola di tutto il racconto, tantomeno della scrittura per immagini), La Classe Operaia va in Paradiso è stato rivalutato immediatamente anche dagli scettici, divenendo il film sul proletariato per antonomasia e ispirando decine di filmmaker negli anni successivi, primo fra tutti Ken Loach e il suo cinema impegnato d'oltremanica.
Rivisto oggi, il ritratto di un lavoratore distrutto dai meccanismo del capitalismo appare ancora più drammatico, con il recente caso di Stellantis che ha portato nuova luce sulla feroce logica dello sfruttamento, con la testimonianza di operai fisicamente devastati da orari di lavoro impossibili e letteralmente ricattati da una classe padronale pronta a rivolgersi al mercato estero pur di aumentare i già pantagruelici profitti in sfregio a tutto e a tutti.
Eppure, quelle immagini di una Italia dove i lavoratori, pur sfruttati, riuscivano ad arrivare a fine mese, a permettersi una o più famiglie e una casa, magari di proprietà, non possono che suscitare un'amara invidia verso la classe lavoratrice odierna, lasciata nel deserto di una nazione che del capitalismo ha saputo riprendere sempre e solo i dettami peggiori.

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