con: Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwin, Stacy Martin, Raffey Cassidy, Isaach De Bonkolé, Alessandro Nivola.
Usa, Regno Unito, Canada 2024
Alla fine delle oltre tre ore e venti minuti di durata, The Brutalist si chiude con un monologo che culmina con una statuizione secondo la quale ciò che conta è la destinazione, non il viaggio.
Un'affermazione del tutto coerente con quella che è la filosofia della architettura brutalista, che tende a guardare al futuro seppellendo il passato sotto le tonnellate di cemento esposto alla vista dell'osservatore; ed è coerente anche con il film, con l'enfasi che alla fine viene posta sul personaggio di Zsòfia, la giovane nipote del protagonista, e la di lei figlia, che appare proprio nell'epilogo. Persino il nome del protagonista, Làszlò Tòth, viene ricalcato su quello del famigerato geologo che nel 1972 vandalizzò La Pietà di Michelangelo, ossia un atto teso a distruggere il fardello dell'arte del passato, il peso di ciò che è stato per spingersi verso il futuro.
Eppure, durante quelle tre ore e venti, lo spettatore non può che chiedersi quale sia effettivamente la destinazione del film, cosa il giovane filmmaker Brady Corbett abbia davvero voluto raccontare con questa storia su di un architetto di origine ungherese emigrato in America alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un'epica? Forse, visto il fantasmagorico formato delle immagini; una storia intimista? Probabilmente, vista l'enfasi posta sul rapporto con la moglie Erzsebét. Un atto d'accusa verso chi sfrutta gli immigrati? Anche questo è probabile. Il ritratto di un artista che coniuga fin troppo bene genio e sregolatezza? C'è anche questo.
Ma tutti questi spunti restano sempre tali e nulla viene davvero sviluppato. Tanto che, appunto, ci si chiede quale sia il punto focale effettivo di tutta la narrazione.
L'idea alla base è quella di creare una narrazione epica, appunto, che parli di uomini dalle ambizioni smodate. Tòth è un architetto in fuga dall'Ungheria occupata dai Nazisti, il suo mecenate Harrison Van Bueren un imprenditore che vuole farsi filantropo. L'affinità elettiva tra i due è il traino per il futuro.
Letta così, la sinossi ben potrebbe essere confusa con quella del Megalopolis di Coppola: anche lì il protagonista è un architetto che cerca di creare un'utopia futura, anche Coppola si interroga su chi e come possa creare un futuro migliore o anche semplicemente più bello per il prossimo.
Ma se Coppola ha le idee chiarissime su cosa narrare e come narrarlo, il giovane Corbet, pur al suo terzo lungometraggio e assistito in sede di sceneggiatura dalla compagna Mona Fastvold, commette l'errore di molti principianti e inserisce tematiche eterogenee nel racconto,senza mai dar loro il giusto corpo.
Il ritratto di Tòth è completo, ma stereotipato, con la dipendenza da alcol e eroina che ne scandisce il lavoro sul mastodontico centro congressi a ritmi regolari, ma non finisce mai per diventare la sua rovina. La riflessione sulla forza dell'arte resta sempre sullo sfondo, non trovando un corpo effettivo. La storia d'amore, appassionata e dannata, tra i due sposi percorre tutto il film, ma non porta mai ad una vera catarsi. Il rapporto tra artista e mecenate dovrebbe farsi controverso nel finale, ma non lo è mai davvero. La sottotrama su Zsòfia e le sinistre attenzioni del figlio di Van Buren non porta poi letteralmente da nessuna parte. Quanto poi alla tematica riguardante l'architettura brutalista, essa viene data praticamente per scontata: il brutalismo è l'arte del futuro perché oltrepassa tutti i canoni del passato per ritrovare l'essenzialità e questo viene solo mostrato dalle foto di repertorio e da qualche linea di dialogo, nulla più.
L'unico spunto che potrebbe dirsi riuscito è quello riguardante l'immigrazione: alla fine, The Brutalist non è che l'ennesima storia di un reietto che raggiunge la gloria grazie all'America. E nulla più.
Si potrebbe così pensare a The Brutalist come ad un'epica totalizzante stile vecchia Hollywood, dove sono le immagini a convogliare temi ed emozioni. E anche così si sbaglierebbe.
Il formato "d'antan" Vistavision viene sprecato, visto che tutte le scene consistono in dialoghi narrati dai protagonisti. Qua e là compare qualche immagine ispirata, qualche taglio delle forme essenziali nel cantiere o quel piano sequenza iniziale che praticamente brucia tutta la creatività della regia, ma per il resto l'uso del formato appare più che altro un vezzo autoriale. Persino quando l'azione si sposta nelle cave di Carrara, che da sole avrebbero potuto portare a creare immagini memorabili tra ambienti naturali e tagli di luce con spazi negativi, la regia si fa lo stesso timida. Ma, in compenso, non risparmia la visione, davvero trash, di una "dolce vita" nelle cave...
The Brutalist è, in buona sostanza, un'epica che non crede fino in fondo a ciò che vuole raccontare; che quindi, non è davvero epica; narrata poi da un autore che preferisce non correre rischi di sorta, né con la storia, né con la messa in scena.
Se il racconto appare corretto, non è mai davvero profondo, mai davvero coinvolgente, mai davvero epico, appunto. Sempre garbato, mai memorabile. In questo, è praticamente l'opposto del film di Coppola, che invece decideva di correre tutti i rischi possibili e immaginabili, dimostrando un coraggio che evidentemente solo pochi autori vogliono permettersi.
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