lunedì 13 luglio 2015

American Graffiti

 di George Lucas.

con: Richard Dreyfuss, Ron Howard, Paul Le Mat, Charles Martin Smith, Cindy Williams, Candy Clark, Mackenzie Phillips, Wolfam Jack, Harrison Ford.

Commedia

Usa (1973)














Fino all'uscita di "THX 1138" (1970), Lucas era un cineasta fortemente legato alla sperimentazione narrativa e a temi cupi; il flop del film finì fatalmente per cambiare la sua indole: abbandonata l'idea di girare "Apocalypse Now" in Vietnam, con pellicola 16mm in b/n e usando veri soldati come protagonisti, il regista di Modesto decide di approcciarsi ad un cinema più semplice e vicino al pubblico, a temi sempre sensibili ma lontani dalla complessità del suo esordio; cerca, in pratica, di creare un pellicola sempre legata alla sperimentazione estetico-stilistica, ma che riesca ad intrattenere davvero gli spettatori. "American Graffiti" è il risultato di questa ricerca quasi spasmodica, un film che coniuga esigenze autoriali con un ritrovato senso della felicità; per quanto si tratti pur sempre di una pellicola sulla maturità girata da un filmaker degli anni '70.


"American Graffiti" è, in buona sostanza, un balzo nel passato recente degli Stati Uniti, che trasporta l'autore e lo spettatore dal cupo e violento 1973 ad uno spensierato 1962; nove anni che fanno la differenza: il Vietnam è alle porte, ma ancora lontano dalla quotidianità, il bel presidente Kennedy è ancora saldamente al potere e nulla fa intuire il suo tragico destino, mentre i ragazzi che spargeranno fuoco e fiamme per le piazze e le strade a partire dal 1968 ora sono ancora dei diciassettenni alle prese con uno dei momenti essenziali della vita: la separazione dal paese natio con la partenza per il college, rito di passaggio che li trasformerà in uomini.


L'ultima notte di libertà per Curt (Richard Dreyfuss), Steve (Ron Howard), John (Paul Le Mat) e Terry (Charles Martin Smith) è al contempo ultimo assaggio della giovinezza e primo passo nell'età adulta; ognuno dei quattro si trova a confrontarsi con sé stesso e le proprie aspirazioni prima di partire o di restare confinato a vita nel paesino della California che Lucas ben conosce e che caratterizza in modo universale, tant'è che risulta facile immedesimarsi in uno qualsiasi dei quattro ragazzi.
Curt è il ragazzo insicuro, dubbioso se sia giusto abbandonare un luogo che si conosce per tentare la fortuna altrove; la misteriosa donna in bianco che lo perseguita per tutta la notte è la promessa di un avvenire sfavillante, ma effimero, una fantasia vaga a cui solitamente ci si appiglia per razionalizzare la paura del distacco; personaggio che Richard Dreyfuss con il suo sorriso umano e la mitica camicia a quadri rende indimenticabile.
Steve, apparentemente il più smaliziato dei quattro, attraversa un arco apposto a quello dell'amico Curt: trova una ragione per restare a casa nell'amore con l'infantile ma fedele Laurie (Cindy Williams).
Terry "Toad" (ossia "rospo"), lo sfigato, attraversa la notte creandosi un carattere fittizio fatto di bugie per far colpo sulla bella Debbie (Candy Clark), ma alla fine realizza a sue spese come la ragazza sia più interessata alla sua vera personalità.
Lo scapestrato John, asso del volante, sorta di bullo dal cuore d'oro, realizza come la sua leggenda di pilota sia giunta al termine dal confronto con Bob Falfa (Harrison Ford, ai suoi esordi prima dei successi che lo stesso Lucas gli garantirà), simbolo della morte fin troppo urlato a carico: Lucas lo barda in una auto nera con un teschio sullo specchietto, sorta di Darth Vader dell'era dei frullati.
Alla fine della lunga notte, tutti e quattro saranno diversi, più maturi, pronti per la vita da adulti, per lo sfacelo che colpirà l'America; eppure ancora a loro modo innocenti, non sciupati dalla maturità, in un inno alla volontà di vivere viscerale.


La ricostruzione del decennio passato è sfavillante; Lucas riporta in auge una serie di luoghi che da qui in poi diventeranno comuni a tutte le pellicole ambientate nello stesso periodo: il fast-food con le cameriere sui pattini, le strade intasate di Cadillac e T-Bird truccate e scintillanti, il ballo di addio, con le coppiette affaccendate in balli rock n' roll scatenati. Sensazionale è l'uso delle canzoni d'epoca: il Dj Wolfman Jack interpreta sé stesso e diviene un personaggio fantasma che accompagna i quattro personaggi nel loro peregrinare notturno, con commenti sarcastici e musica orecchiabile; il numero di tracce usate è incalcolabile ed ogni pezzo ha una precisa valenza narrativa, accompagnando le azioni dei personaggi come una sorta di commento alle stesse; stile che sarà ripreso anni dopo da Robert Zemeckis per "Forrest Gump" (1994), riducendolo però ad un mero guazzabuglio di canzoni d'epoca, poichè privato della componente narrativo-descrittiva.


Lo stile del primo Lucas è ancora avvertibile: la ricercatezza delle inquadrature lascia spazio a frame più laconici, immagini più ruvide che in "THX 1138" che cozzano con la leggerezza dei toni; le inquadrature sono quasi sciatte: tutte le immagini prendono vita solo grazie al montaggio, che trasforma fotogrammi inerti in sequenze credibili, con un effetto straniante. Tutto il film è quasi un documento ritrovato per caso e rimontato in modo da avere senso: un tuffo nel passato ruvido e convincente, quasi un omaggio ai dettami della Nouvelle Vague, privato della componente estetica che rese famose le pellicole del periodo, prova della volontà di Lucas di sperimentare piuttosto che accasciarsi sul terreno del convenzionale. E sempre dai cineasti francesi riprende il gusto per l'improvvisazione usata come sguardo più veritiero verso le azioni dei personaggi, garantita anche dall'uso di due macchine da presa in contemporanea per carpire meglio le interpretazioni degli attori, come all'epoca insegnava la scuola di John Cassavetes.


Il tono leggero e spensierato non tragga in inganno: "American Graffiti" è un romanzo di formazione riuscito e penetrante, conferma del talento di un George Lucas che ormai esiste solo nei ricordi degli aficionados più irriducibili.



EXTRA

Successo a sorpresa al botteghino internazionale nel 1973, "American Graffiti" generò un bel seguito: "More American Graffiti" (in Italia semplicemente "American Graffiti 2") nel 1979:


Girato come una serie di cortometraggi poi montanti in un unico lungometraggio, "More American Graffiti" riprende le vicende dei tre personaggi rimasti al paese e li pone a confronto con i temi più scottanti degli anni '60, riprendendo le storie dalle "cartoline" che appaiono alla fine del primo film.

Più famosa è invece una serie televisiva che, pur non essendo narrativamente connessa al film di Lucas, ne riprende stile, ambientazione ed una certa nostalgia per il passato, oltre che il volto di Ron Howard per divenirne una sorta di estensione:



"Happy Days" debutta nel 1974, un anno dopo l'uscita di "American Graffiti" nelle sale americane; al di là del "fattore nostalgia", la serie si impone all'attenzione del pubblico grazie ad alcuni dei temi affrontati, come il divorzio e l'intolleranza, all'epoca strettamente tabù per il mezzo televisivo e che le permisero di distanziarsi dal modello di riferimento.

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