sabato 18 luglio 2015

The Death of "Superman Lives": What Happened?

 di Jon Schnepp.

con: Tim Burton, Jon Peters, Kevin Smith, Lorenzo DiBonaventura.

Documentario

Usa (2015)

















C'è una regola ad Hollywood: più un progetto è ambizioso, più probabilità ci sono che non debba vedere la luce. Questo perchè, stando all'ottusa mentalità dei produttori, il pubblico è stupido, non può trovare interessanti trame, personaggi ed argomenti che si discostino dal "canone" e deve sorbirsi sempre i soliti quattro elementi in croce quando si tratta di grosse produzioni.
Regola che oggi domina il mercato dei film-fumetto grazie alla politica dei Marvel Studios, con i loro kolossal fatti in serie, privi di mordente e spettacolo; ma che negli anni '90 poteva trovare dei temperamenti; d'altro canto, si era reduci allora dai successi di film poco convenzionali, come il "Batman" di Burton, e la voglia di sperimentare, da un punto di vista strettamente creativo, era ancora viva e tangibile.
E' in questo contesto che nasce e si sviluppa il progetto "Superman Lives", tentativo purtroppo abortito di rivitalizzare le gesta dell'Uomo d'Acciaio al cinema dopo il sanguinante flop di "Superman IV" (1987); un'opera colossale ed ambiziosa, che non vede mai la luce e che nel corso degli anni ha generato leggende, menzogne ed insulti gratuiti che si sono susseguiti a seguito della pubblicazione, timida e talvolta non autorizzata, del materiale di repertorio.
E dopo anni di speculazioni sul fallimento, su quanto avrebbe dovuto e potuto essere, il fanboy Jon Schnapp crea il documentario "Death of "Superman Lives" per fare il punto su cosa questo mitologico progetto avrebbe dovuto e potuto essere, intervistando i diretti interessati. E come nel caso di "Jodorowsky's Dune" (2014), la cui visione ha ispirato Schnepp, si scopre clamorosamente che anche questo "aborto" avrebbe potuto cambiare in meglio il destino di Hollywood.


Alla base dell'operazione c'è l'enorme successo della saga "La Morte di Superman", che nel 1993 sconvolgeva il mondo dei comics con la morte, temporanea ovviamente, dell'Azzurrone di casa Dc. Fiutando il possibile successo, agevolato dalla scadenza dell'acquisizione dei diritti del personaggio da parte dei fratelli Salkind, il produttore Jon Peters, figura sui generis già alla base della della creazione di "Batman", acquista i diritti del personaggio ed ingaggia Kevin Smith per la stesura di una prima bozza di sceneggiatura.
Il rapporto tra Smith e Peters è turbolento e le prime "storie" riguardano proprio il brianstorming alla base di questa prima stesura, che Schnapp documenta intervistando i due e sfatando i primi miti; stando ai racconti del mitico geek del Jersey, Peters gli aveva imposto di non far volare Supes (!), eliminare l'iconico costume rosso e blu ed inserire uno scontro con un ragno gigante nell'ultimo atto; delle tre condizioni, solo l'ultima si rivela fondata: la passione del pazzoide Peters per i kolossal classici americani lo aveva portato a voler creare una sequenza da antologia con un animale gigante, che Smith trasforma nello scontro tra Superman ed un insetto alieno.



Ancora più interessante è la conversazione con Tim Burton; si dava per assodato come l'autore fosse contrario al film e che vi partecipasse solo per motivi commerciali: nulla di più sbagliato: Burton, anzi, decide di prendervi parte per poter creare visioni non più notturne e cupe, dare al suo cinema un'impronta esteticamente più viva e colorata per non fossilizzarsi sui canoni del gotico baviano; l'entusiasmo con cui racconta i primi giorni di produzione è tangibile, tanto che arriva a rivelare come inizialmente non apprezzasse neanche lavorare su "Batman", ma come quell'esperienza lo abbia formato e gli abbia permesso di creare uno dei suoi film migliori, "Batman Returns" (1992).
E le visioni di Burton che prendono vita grazie ai bozzetti, sotryboards e concept art appaiono oggi ancora sconvolgenti: rifacendosi alla fantascienza viscerale di H.R. Giger e Moebius, l'autore crea una Krypton cyberpunk, una Metropolis art decò lontana dal gotico classico di Gotham City e dotata di una personalità, due villain, Braniac interpretato da Christophe Walken e l'abominio Doomsday, come mai sono apparsi su schermo (in tutti i sensi); Braniac è un'intelligenza artificiale dal corpo aracnoide e la testa aliena, che si muove su di una gigantesca astronave a forma di teschio addobbata con tutte le specie dei mondi che ha distrutto e che da metà film in poi si fonde con Lex Luthor, che già qui doveva essere interpretato da Kevin Spacey; mentre Doomsday diviene una creatura dai mille volti, un mostro di Frankenstein invincibile e terrificante.


Ancora più interessante è il lavoro svolto sul personaggio di Superman; Burton rilegge l'angelo custode di Siegel e Shuster con un outsider, ossia un perfetto personaggio della sua poetica, un essere incapace di mischiarsi con i terrestri e psicologicamente atterrito dalla grandezza dei suoi poteri. Un superuomo più terreno ed imperfetto, simile a quello che sarebbe poi apparso in "L'Uomo d'Acciaio" (2012) e che rende la scelta di Nicolas Cage azzeccata; il volto scarnificato e le movenze legnose dello scalcinato attore di origine italoamericana sembrano perfette per incarnare il goffo Clark Kent, versione fantozziana dell'ater ego storico di Kal-El; e come accaduto per Micahel Keaton al tempo dell'annuncio del suo casting per l'Uomo Pipistrello, anche per Cage le reazioni sono state furiose (anche da parte di chi scrive), causa anche di un paio di foto delle prove costume che non lo ritraevano in modo affiatato e finanche acconciato con una terribile parrucca da accatto. Ma guardando le immagini di quelle prove si nota l'entusiasmo dell'attore, la grinta che riversa nel ruolo e nel progetto, mista ad un umorismo non comune; e quando riesce a concentrarsi, dona un paio di scatti che chiarificano come, forse, sarebbe stato più che credibile nei panni del supereroe.


Semplicemente sorprendente è la parte riservata al lavoro sull'armatura che Superman avrebbe indossato: abbandonato il costume classico e prima di indossare un'inedita tuta nera, ispirata a quella che il personaggio sfoggia dopo la sua resurrezione nei fumetti, Kal-El avrebbe usato dapprima un costume curativo, poi una vera e propria corazza, in realtà una trasformazione di K, personaggio inedito che affianca l'eroe, caratterizzato come un robot kryptoniano che lo ha assistito fin dalla sua nascita sul suo pianeta natale. La tuta curativa, con le luci intermittenti e i neon, è un piccolo capolavoro di design pacchiano ma affascinante, mentre i concept per la trasformazione di K sono semplicemente sbalorditivi; il lavoro per creare la tuta curativa viene documentato in maniera certosina: è incredibile vedere la fatica e l'ambizione di un gruppo di tecnici allep rese con un'impresa immane, quando oggi come oggi risultati simili vengono totalmente creati con la CGI, spesso con esiti atroci come nel caso di "Lanterna Verde" (2011) o di alcune delle visioni dello stesso Burton in "Alice in Wonderland" (2010)


Di tutto il lavoro e l'entusiasmo, nulla purtroppo è sopravvissuto; i magri incassi degli orrendi kolossal Warner dell'epoca hanno portato alla cancellazione del progetto a 3 settimane dall'inizio delle riprese; mentre il pessimo script del film, rimaneggiato da Dan Gilroy e Wesley Strick ha convinto i produttori della casa di Bugs Bunny a cassare il progetto anche a seguito del revival dei film dei supereroi; mossa stupida, se si tiene conto di come anche le sceneggiature dei primi due film su Batman fossero scalcinate: la riuscita di quei film e il loro immane successo era dovuto al talento del regista, piuttosto che a quello degli scrittori.


Quel poco che è sopravvissuto di "Superman Lives" è confluito poi in "Superman Returns" (2006), che Bryan Singer ha diretto prendendo come termine di paragone negativo tutto il lavoro fatto da Peters, Smith, Burton e soci, con esiti di sicuro non memorabili.
E alla fine svetta su tutto il rimpianto supremo di quello che avrebbe potuto essere il cinema di supereroi ricreato da un gruppo di stramboidi: gente folle, ma creativa e appassionata, la cui semplice rivisitazione di un lavoro mai compiuto fa comprendere come Hollywood abbia bisogno di più sperimentatori e meno Kevin Feige.

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