di Pawel Pawlikowski.
con: Joanna Kulig, Tomasz Kot, Borys Szyc, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar, Adam Worowicz, Adam Ferency.
Polonia, Francia, Inghilterra 2018
1949: la Polonia è sotto l'egida dell'Unione Sovietica. Nel mezzo del gelido inverno, Wiktor (Tomasz Kot) gira il paese alla ricerca delle sue radici folkloristiche, date dai canti popolari, fino ad arrivare a creare una compagnia di canto che riproponga al grande pubblico quella tradizione canora. In tale occasione conosce la bella Zula (Joanna Kulig) con la quale intreccerà una lunga, intensa e contrastata storia d'amore.
Ma cos'è davvero questa love-story per Pawel Pawlikoski?
Di sicuro quella dedica finale ai propri genitori tradisce l'origine biografica della storia. E almeno nella prima parte, "Cold War" appare fatto di reminiscenze improvvise di un passato che fu e che adesso, forse, è andato perduto. Anzi, in tutta la prima metà del film, quella ambientata strettamente nel Blocco Orientale, il canto è parte essenziale della messa in scena, interrompendo talvolta bruscamente le scene con note gridate improvvisamente e numeri teatrali a rubare la scena alla vera narrazione. Eppure c'è qualcosa di imperscrutabile in tutto il film, che fa crescere nello spettatore la sensazione di non stare afferrando davvero il senso di ciò che si sta guardando.
Pawlikoski si affida a una messa in scena che fa della ricerca estetica un'ossessione (al pari del Cuaròn di "Roma"): lo schermo si restringe per meglio incorniciare i personaggi in immagini in 4:3, la fotografia in bianco e nero è tutta basata sui contrasti di luce e ombra, come quella de "Il Cielo sopra Berlino" di Wenders dalla quale sembra trarre esplicita ispirazione, mentre la geometricità dei campi lunghi viene giustapposta a campi medi (sopratutto quelli parigini) asfissianti. La bellezza delle singole immagini è a dir poco sfolgorante, cattura l'occhio come troppo poco spesso accade nel cinema degli ultimi anni.
La narrazione, d'altro canto, è volutamente sconnessa, sottrattiva, quasi desertica nel suo procedere inerte attraverso gli anni del racconto. Divenendo, di conseguenza, fredda, glaciale nel ritrarre invece una storia in cui la passione sfrenata è al centro di tutto.
Ogni sentimento viene trattenuto, ogni riflessione lasciata al di fuori della scena: non c'è davvero nostalgia nelle immagini di una Polonia remota, né in quelle di una Parigi che sembra uscita da un noir; tantomeno c'è una presa di posizione davanti a due personaggi che sembrano vivere solo gli uni per gli altri. Non aiuta alla comprensione quel finale ellittico, che si limita a interrompere il racconto, lasciando tutto sospeso, senza dare una vera risoluzione o un senso agli eventi.
Nasce quindi il sospetto su cosa sia davvero "Cold War".
La risposta più probabile è quella dell'esercizio di stile, di un film nato con l'intenzione di narrare una storia di certo non nuova in un modo del tutto antitetico a quanto invece il soggetto avrebbe richiesto: di storie d'amore che si agitano sullo sfondo della Guerra Fredda, il cinema ne ha davvero viste parecchie; Pawlikoski decide così di narrare il suo punto di vista sviando al contempo tutte le aspettative possibili del pubblico; per intenderci: laddove il precedente "My Summer of Love" rappresentava la parte più emotiva del sentimento e "Ida" il rapporto razionale con il contesto storico, "Cold War" rappresenta un approccio razionale al sentimento e mediamente sentimentale al contesto storico. Dove, di conseguenza, ogni vera pulsione viene volutamente trattenuta, anzi raggelata entro immagini la cui bellezza diviene algida, come quella delle statue di marmo in un museo: perfette rappresentazioni di corpi nell'estasi dell'amore o nella pulsione del movimento, eppure al contempo inerti, immobili, perennemente bloccate in una posa dinamica quanto si vuole, ma pur sempre ferma.
Un esercizio che può quindi dirsi riuscito e, in fin dei conti, anche interessante. Ma un esercizio di stile resta pur sempre tale: più che cibo per l'anima, "Cold War" è cibo per la mente, un'opera riuscita quanto si vuole, ma in fin dei conti antipatica, quasi ostica nel costante girare su sé stessa. Cinema d'autore al 100%, anche nel senso peggiore del termine, per questo non per tutti.
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