di Peter Farrelly.
con: Viggo Mortensen, Mahershala Alì, Linda Cardellini, Sebastian Maniscalco, Dimiter D.Marinov, Mike Hatton.
Drammatico/Commedia
Usa 2018
Poco prima dell'annuncio delle ultime nominations agli Academy Awards, Bret Easton Ellis affermava, nel suo personale podcast, come lo smanioso supporto operato dalla Disney per "Black Panther" fosse l'ennesima inutile e squallida trovata pubblicitaria di un establishment impaurito dal concetto di inclusivismo; per Ellis, in buona sostanza, a nessuno interessa più la qualità di un film in sé stessa, quanto la sua capacità rappresentativa della minoranza di turno, meglio se afroamericana, ed è esclusivamente in base a questo parametro che un film va giudicato, secondo i canoni della critica statunitense.
Una statuizione del genere, letta da uno spettatore italiano, può sembrare aberrante: in una società fieramente razzista, che combatte quotidianamente con le derive xenofobe perorate spesso dalle istituzioni, l'inclusivismo dovrebbe essere un imperativo condivisibile. Il che è anche corretto, ma non tiene conto delle differenze culturali esistenti tra il nostro tessuto sociale e quello americano (più simile a quello inglese): in una società dove il multiculturalismo è realtà da anni, nella quale la differenza di trattamento sulla base del colore della pelle è oramai quasi del tutto un retaggio di un passato che si vorrebbe persino eliminare e nel quale lo stesso tessuto sociale depreca apertamente le politiche razziste del governo in carica, premiare esclusivamente pellicole che hanno per protagonisti personaggi di colore e trattino tematiche razziali è una pratica inutile, finanche controproduttiva quando, come nel caso di "Black Panther", il film è privo di un qualsiasi valore artistico effettivo. L'attenzione così riservata si tramuta in un mero escamotage pubblicitario per la casa di produzione di turno, la quale potrà utilizzare la carta della propaganda liberal come biglietto da visita, nonché in un vero e proprio atto di lavaggio delle coscienze da parte di un industria che, volente o nolente, risente di un clima politico oscuro e che ha ancora oggi troppi scheletri nell'armadio, come il movimento #metoo ha dimostrato.
Fatto sta che anche quest'anno, agli Oscar, ha trionfato, almeno alle nominations, il politicamente corretto sull'artisticamente valido. E se da un ideale lato dello spettro qualitativo troviamo un film come "Black Panther" e dall'altro quel "BlacKkKlansman" che invece avrebbe meritato maggiori attenzioni, in una ideale zona grigia rientra un film come "Green Book", vera e propria Oscar-Bait che presenta una storiella trita e risaputa, per quanto basata su avvenimenti reali, premiata giusto perché rappresenta l'ennesima testimonianza sul passato intollerante americano, ma che quantomeno riesce a convincere, se non con la storia in sé, con un'esecuzione notevole.
Il "Green Book" del titolo altro non è se non un'ideale "guida turistica per neri" durante gli anni della segregazione: un itinerario, di fatto obbligatorio, per quegli afroamericani che, in viaggio negli stati più ottusi del sud, desiderano restare lontano dai guai. Viaggio che il virtuoso del piano Don Shirley (Alì) intraprende poco prima del Natale 1962 e per il quale decide di usare come scorta il rozzo Tony "Lip" Vallelonga (Mortensen), italoamericano del Bronx famoso per la sua "capacità di risolvere i problemi".
La dinamica conoscitiva tra i due attraversa tutti gli stadi immaginabili. Ha origine da un'ovvia opposizione caratteriale: Shirley, afroamericano newyorkese, figlio dell'upper class che vive in un attico del Carnagie Hall dagli interni lussureggianti, dotato di modi forbiti e abiti eleganti, nonché di una cultura, musicale e letteraria, di prima classe, quasi uno snob perso in un'ottusa contemplazione del bello. Vallelonga, figlio di quella working-class ad un passo dal malaffare, razzista ma in fondo neanche più di tanto, ignorante ma esperto di vita, pronto a rimediare ai torti allungando banconote quando non direttamente cazzotti sul grugno. Due caratteri opposti che vivono in due corpi opposti, quello longilineo di Mahershala Alì e quello ingombrante (in una performance dal Actor's Studio) di Mortensen. Due persone, in sostanza, agli antipodi su tutto, in una dinamica che ricorda (a caso?) quella del francese "Quasi Amici", solo in termini invertiti.
Il viaggio diviene così momento di conoscenza, di confronto nel quale i due sono chiamati ad uscire dalla propria ideale "comfort zone" per mettere in discussione ciò in cui credono (o in cui pensano di credere) e per ritrovare sé stessi, come tradizione insegna. E dalla tradizione, lo script non si distacca neanche di un millimetro, centrando tutti i topoi del caso: poliziotti sadici, redneck intolleranti, borghesucci che sfruttano il talento del diverso per il proprio sollazzo senza mai riconoscergli una vera dignità, fino alla messa in scena di quella compartimentazione sociale propria della società americana che vede gli italoamericani non mischiarsi mai con i neri. E se la parata di luoghi comuni sull'intolleranza è innocua, forse perché sa di già visto, decisamente ridicola è la descrizione degli italiani, che sembrano la parodia di quanto visto ne "I Soprano" e in tanto cinema di Scorsese: tutti rigorosamente sovrappeso, dal capello impomatato, caratterizzati da modi teatrali e dall'appetito insopprimibile, perennemente seduti ad un tavolo a mangiare (Vallelonga mangia praticamente in ogni scena in cui appare).
La tematica razziale paga così lo scotto di una storia risaputa e di una descrizione che poggia su troppi luoghi comuni per essere presa sul serio. Per fortuna, a salvare la visione ci pensano i dialoghi e l'alchimia tra gli attori.
Peter Farrelly, separatosi dal fratello Bobby dopo quasi 25 anni di collaborazione e abbandonate le scorrettissime gag a base di moccioloni di seme e minzioni femminili, si mette letteralmente al servizio dello script e del duo di protagonisti, i quali risplendono in due performance che, al pari dei personaggi, si completano a vicenda: Alì adopera uno stile pacato, sottrattivo, che lo rende quasi trasparente, mentre Mortensen istrioneggia in modo quasi sornione. L'umorismo trasuda dai dialoghi brillanti, totalmente basati, anch'essi, sulla contrapposizione caratteriale dei due personaggi, che, recitati da un duo in stato di grazia, fanno amare ogni singola scena, anche quelle più scontate.
E la forza del film è tutta qui: non tanto l'impegno, quanto la capacità di riuscire a far apprezzare un'operazione vecchia anche allo spettatore più smaliziato, come solo il buon cinema sa fare.
Nessun commento:
Posta un commento