lunedì 6 maggio 2019

Dragged Across Concrete

di S. Craig Zahler.

con: Mel Gibson, Vince Vaughn, Michael Jai White, Tory Kittles, Tomas Kretschmann, Laurie Holden, Jennifer Carpenter, Don Johnson, Udo Kier, Justine Warrington.

Noir

Usa, Canada 2018














Quando, nel 2015, "Bone Tomahawk" uscì direttamente in home-video, in molti rimasero piacevolmente sorpresi dinanzi ad un esordio tanto controllato e riuscito. S.Craig Zahler veniva dalla letteratura, in un certo senso il medium più antitetico al cinema che si possa immaginare, dove il senso del tempo scorre per forza di cose in modo differente ; è, di conseguenza, necessario padroneggiare diverse tempistiche quando ci si approccia, viceversa, al cinema, come lui aveva fatto, dimostrando uno stile e una visione solidi, anche se ancora acerbi.
Eppure, oggi, dinanzi al terzo film, "Dragged Across Concrete", Zahler dimostra non solo di saper padroneggiare le tempistiche filmiche, ma addirittura di saperle mischiare con quelle proprie della letteratura, per creare uno stile non proprio ibrido, eppure diverso da entrambi; una vera e propria forma decostruttiva della narrazione filmica, volta tuttavia a cercare un nuovo tipo di ritmo piuttosto che a sovvertire semplicemente le convezioni.




Poiché in "Dragged Across Concrete", il cinema poliziesco "classico" (e in un certo senso "classicista") sopravvive sottopelle, a partire dalla trama, che unisce due dei più classici luoghi comuni del genere: Brett Ridgeman (Gibson) e il suo compagno Tony Lurasetti (Vaughn), vengono sospesi dalla polizia per uso eccessivo di violenza durante un arresto, sul quale aleggia lo spettro della discriminazione razziale. Contemporaneamente, il giovane Henry Johns (Kittles) esce di galera e cerca un modo per portare la sua famiglia fuori dal ghetto, che sembra avere le forme di un piano in cui viene invischiato dall'amico Biscuit (Michael Jai White). Due storie che si incroceranno nel peggiore dei modi.



Le somiglianze con il poliziesco classico americano finiscono qui, alle sole premesse della storia. In 159 minuti, Zahler decostruisce totalmente il concetto di narrazione visiva, adottando un ritmo lento, fino a dilatare completamente le tempistiche nel climax. Ogni linea dialogica viene digerita dai personaggi, ogni primo piano resta impresso a lungo su schermo. L'azione viene costantemente rimandata e quando arriva, viene eseguita rallentando ogni singolo movimento.
La comune storia di una tripla rapina finita nel sangue viene così smontata di ogni catarsi possibile: le lunghe azioni non portano a nulla che non sia già prestabilito o prevedibile. Non c'è arco caratteriale per i personaggi, i quali si muovono eseguendo le loro azioni sapendo fin dall'inizio cosa rischiano e a cosa vanno incontro. Si resta così spiazzati costantemente, in ogni singola scena, per il modo magistrale in cui nulla spiazza davvero, in cui ogni pezzo del puzzle si incastra alla perfezione, persino quando sembra contraddire il quadro generale, come nel caso della sequenza con protagonista Jennifer Carpenter, che sembra preludere ad un'ulteriore sottotrama, solo per concludersi di punto in bianco.
Il tutto viene condotto con la massima serietà; non c'è compiacimento nell'operazione di riscrittura del "genere", né la volontà di mischiare questa nuova sensibilità con derive farsesche (come invece avveniva nel cinema Pulp degli anni '90); l'umorismo portato in scena è anzi talmente secco da ricordare quello dei fratelli Coen, dove la situazione comica è ravvisabile unicamente dallo spettatore, mai dai personaggi in scena.



La mancanza di catarsi e archi caratteriali ha consentito, malauguratamente, alle polemiche più dure di colpire il film: il personaggio di Mel Gibson è apertamente anti politically correct e non aiuta il fatto che ad interpretarlo ci sia proprio un attore noto per gli scandali a sfondo razziale. "Dragged Across Concrete" è, di conseguenza, un film razzista?
La risposta è no. Non c'è una forma di sberleffo o di odio nella descrizione dei personaggi di colore, che, anzi, dimostrano di avere dei valori positivi, alla fine dei giochi, a differenza dei bianchi. La sinistra woke americana ha, per l'ennesima volta, preso un granchio, parlando a sproposito con reazioni innescate dalla semplice mancanza di conformismo al pensiero dominante da parte dell'autore e del cast.




Quello di Zahler si conferma così come un cinema anomalo, eterodosso e sorprendente nella sua solo apparente contraddittorietà, che lo avvicina, per certi versi, più alla sensibilità europea verso il cinema di genere che a quella, di stampo neo-classicista, tipicamente americana.

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