sabato 30 maggio 2020

Killing

Zan

di Shinya Tsukamoto.

con: Sosuke Ikematsu, Shinya Tsukamoto, Yu Aoi, Kohji Katoh, Tatsuya Nakamura, Ryusei Maeda.

Drammatico

Giappone 2018














"Zan", ossia "spada", prolungamento del corpo dell'uomo adoperato per uccidere, affermando sé stessi sull'avversario. "Killing", ossia uccidere, eradicare la vita dal corpo di un essere vivente in nome di un (pur effimero) trionfo personale. Nel duplice titolo sta tutto il significato dell'ultima opera di Tsukamoto, che dopo il malriuscito "Fires on the Plain" torna a scorgere il passato della propria patria per intessere una riflessione severa sulla natura violenta dell'uomo.




Alla fine del XVIII secolo, nel periodo in cui l'Imperatore e lo Shogun sono impegnati in una sanguinosa battaglia per il potere, il ronin Mokunoshin (Sosuke Ikematsu) si rifugia in un minuscolo villaggio di campagna, dove si innamora della bella Yu (Yu Aoi) e addestra il di lei fratello (Ryusei Maeda) alla via della spada. L'idillio viene distrutto dall'arrivo di un altro ronin, Sawamura (Tsukamoto), che tenta di reclutare Mokunoshin in una missione di soccorso alle truppe dello shogun, rivelandone l'incapacità di uccidere.




L'arte di uccidere è uno dei dogmi della via del samurai; togliere una vita in un duello è l'essenza stessa della spada, organo esterno annesso al corpo (una delle inquadrature iniziali vede Mokunoshin impugnarla come farebbe con il proprio fallo) che esiste solo per togliere la vita (un parallelo della trivella-pene di "Tetsuo"). Un samurai che non toglie la vita è inutile; la ritrosia dall'uccidere, intesa non come comportamento di adeguamento morale ad un insegnamento esterno, ma come incapacità fisiologica di adeguarsi alla propria natura, è come l'impotenza, ossia la mancanza di partecipazione ad un rito essenziale dell'esistenza. Mokunoshin, pur giovane e dotato, adopera la spada come uno strumento musicale, con il quale esegue dei movimenti raffinati e precisi, volti ad enfatizzare il carattere più sublime della scherma. Sawamura, più anziano e più virile, adopera la spada per fendere gli esseri umani, per strappare loro la vita; ma, così facendo, avvia una spirale che consuma tutto e tutti.



In una riuscita inversione stilistica, Tsukamoto riprende gli eleganti addestramenti di Mokunoshin con camera a mano, creando immagini volutamente rozze e sporche, contrapposte a quelle più precise del duello di Swamura, che rispetta le tempistiche del cinema di Kurosawa, in una ripresa della tradizione che si fa, in contrappasso, celebrazione della violenza.
Una violenza che genera violenza ad infinitum; laddove Mokunoshin trova una forma di intesa con quelli che dovrebbero essere i suoi avversari naturali (i banditi che si affacciano al villaggio), appianando le divergenze con un gioviale sorriso ed il convivio, Sawamura li massacra aprendo ad una feroce vendetta che causerà la morte degli innocenti.




Ma la mitezza del guerriero non può trovare ragion d'essere in tempo di guerra; l'incapacità di uccidere, per lui, è come l'impotenza, l'impossibilità di consumare un rapporto completo (le due scene di masturbazione e del gioco erotico con le dita, che suppliscono laidamente all'amplesso). Un samurai incapace di uccidere non ha ragione di esistere: come la coccinella che risale istintivamente verso l'alto per poi ascendere al cielo, anche il samurai deve riscoprire il suo istinto di morte; da cui il sacrificio del maestro per consentire al più giovane di divenire persona completa, integra ma destinata unicamente al thanatos, mai all'eros (da cui il finale, con le grida passionali e disperate di Yu).




Tsukamoto crea così un apologo elegante e affascinante, basato sulla contemplazione quasi stoica di immagini e personaggi, dove la violenza arriva all'improvviso per distruggere la quiete, in una quadratura perfetta tra intenzioni autoriali ed esigenze di racconto. Un piccolo gioiello che ne risolleva la filmografia, imponendosi come una delle sue opere più lucide e disperate, un discorso sulla necessità della violenza in un periodo di guerra e sulla sua ineludibile e onnipotente carica distruttiva; discorso pur pacifista conscio dell'orrore del mondo, spaventoso nel ritrarre la naturalezza del male nella condizione umana.

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