con: Federico Fellini, Maya Morin, Alvaro Vitali, Fanfulla, Gigi Reder, Anita Ekberg.
Italia 1970
Stretta tra l'exploit di "Fellini Satyricon" e il ritratto personale di "Roma", "I Clowns" è un'opera che viene solitamente etichettata come "minore" all'interno della carriera dell'artista riminese. Un torto? Quasi sicuramente. Perché è già in questo ibrido tra documentario e fiction che Fellini declina il tema della memoria infantile, della ricerca del passato tra ricordo, fantasia e fatti, come e più che in "I Vitelloni" grazie alla verve visionaria che nel frattempo si è fatta strada nella sua sensibilità.
Fellini apre questo suo viaggio nel mondo dei clown con i ricordi d'infanzia: un circo arriva in città. Lo show viene ricreato in modo certosino: il ricordo si fa omaggio diretto ad uno spettacolo unico, che marchierà per sempre l'immaginario del giovane autore. Il quale, partendo da questa esperienza, rievoca anche quei clown "veri", gli strambi abitanti della sua Rimini, la cui umanità genuina risulta buffa e spiazzante ai suoi occhi.
In questo primo atto, Fellini mette da parte la formula del documentario in favore della fiction, usata per un racconto personale il quale si fa universale nella sua capacità di creare una fantasmagoria efficace e colorita partendo dall'esperienza soggettiva.
Dal passato ci si riallaccia al presente, in una ricerca di quei volti e quei corpi che hanno dato lustro alla figura del pagliaccio. Piuttosto che limitarsi ad una ricerca formale, Fellini sfonda la quarta parete e crea un doppio punto di vista: quello del Fellini autore, impegnato nella ricerca, più quella del Fellini-personaggio, protagonista della ricerca stessa assieme ai suoi collaboratori. Narrazione e narrato si fondono, realtà e fantasia si uniscono: Alvaro Vitali diviene un membro della troupe e Anita Ekberg si diverte ad apparire in un cameo nei panni di sé stessa.
In questo secondo atto, Fellini rievoca le vecchie glorie del circo: dagli Orfei ai Fratellini, passando per Chocolat, si ripercorrono le tappe più importante della creazione della figura del pagliaccio. Viene spiegata la differenza tra il clown bianco, solitamente più serio e dagli abiti sfarzosi, e l'augusto, il "servo" oggetto delle sue angherie. I vecchi artisti si prestano alla parte reale ricordando gli anni d'oro, mentre l'autore porta in scena le vecchie gag, dando loro nuovo sfarzo. Su tutto aleggia la figura, mai mostrata e solo nominata, di Chaplin, nelle sue azioni e nella figura della sua stessa nipote Victoria, aspirante circense.
La narrazione si chiude con un duplice addio, ossia il funerale di clown e, nell'epilogo, le ultime note di una maschera che già 50 anni fa era prossima a sparire. Ma anzicché chiudere con una nota triste, Fellini trasforma il terzo atto in un hellzapponin' nel quale la gloria della figura del pagliaccio ritrova forma e sostanza, uno spettacolo senza freni nel quale contano solo le trovate comiche e il ritmo indiavolato, nel quale persino la figura del regista viene dissacrata per dar spazio al sorriso irrefrenabile e irriverente.
Il vecchio spettacolo rivive così un ultima scintilla di gloria. E l'omaggio dell'autore è sincero, sentito e irresistibile, mai troppo compiaciuto, né polemico, un perfetto equilibrio tra amore e rassegnazione. Anche se, fortunatamente, 50 anni dopo l'arte circense e quella clownesca, bene o male, vivono ancora, dentro e fuori il Grande Schermo.
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