con: Martin Potter, Max Born, Hiram Keller, Salvo Randone, Capucine, Lucia Bosè, Mario Romagnoli, Magali Noél, Alain Cuny, Fanfulla, George Eastman.
Italia, Francia 1969
Il "Satyricon" di Petronio è sicuramente un'opera sui generis, uno dei pochissimi esempi di romanzo che ci arriva dall'età classica, in questo caso romana; il quale, purtroppo, non è sopravvissuto al passare del tempo: di tutto il racconto, ci sono giunti solo frammenti sconnessi, impossibili da organizzare, così come sono, in una narrazione fluida e completa. Il che, tuttavia, non ha limitato e, anzi, ha infiammato l'immaginazione di Fellini.
Stando al racconto canonico, il grande artista ritrova il romanzo di Petronio durante una convalescenza, riscoprendolo dopo averlo studiato a scuola, decenni prima; a colpirlo sono appunto quei vuoti che sospendono in modo traumatico le avventure di Encolpio, Ascilto e Gitone nella Roma pre-cristiana. Come macerie sulla spiaggia (l'ultima immagine del film, appunto), sopravvissute alle intemperie del tempo, gli episodi trovano una connessione solo nella mente di Fellini. E da qui nasce l'idea per un film, un'interpretazione personale dell'opera di Petronio, un "Fellini Satyricon" appunto, che descrive in modo indefesso e opulento gli eccessi del passato come metafora sgargiante del presente.
Pur tuttavia, vedere l'opera di Fellini come una semplice metafora non le rende giustizia (un lavoro del genere, semmai, è attribuibile a Pasolini, che proprio in quegli anni finiva il Ciclo del Mito e preparava la Trilogia sulla Vita). Il suo "Satyricon" è, per prima cosa, una rielaborazione della matrice letteraria talmente visionaria da rasentare la fantascienza. Ogni elemento narrativo viene pompato ed elevato sino all'iperbole, per poi essere incastonato in una messa in scena barocca, talvolta para-teatrale per meglio incapsulare personaggi e scenografie in inquadrature talmente pittoriche e ricercate da divenire essere stesse piccole opere d'arte.
"Fellini Satyricon" è la definizione stessa di barocco applicato al cinema, una colata lavica di pura arte visiva di 139 minuti di durata dove la magnificenza dell'immagine fagocita tutto, in modo a dir poco magistrale.
Inutile lamentarsi di una storia sconnessa ed episodica; Fellini non fa altro che rispettare la forma frammentaria del romanzo, ispirandosi agli episodi in esso contenuti per crearne di nuovi, visionari e splendidamente coerenti con la filosofia e la decadenza della Roma pagana.
Veri protagonisti delle singole trame sono le pulsioni del corpo, la bramosia e la lussuria in primis. Non per nulla, il peregrinare dei protagonisti comincia quando Encolpio decide di riprendersi l'imberbe Gitone dall'amico Ascilto. E vero e proprio centro nevralgico per tematica e ricercatezza visiva è l'episodio del convivio di Trimalcione, lungo banchetto nel quale gli invitati si abbuffano senza sosta e durante il quale viene persino raccontata una storiella sulla lussuria di un soldato e di una vedova, unicum in cui amore e morte si abbracciano.
Morte che in questa Roma pagana post-moderna coincide spesso con l'eclissarsi dei sensi. L'impotenza di Encolpio, che lo colpisce dopo il visionario episodio del Minotauro, uomo-bestia che minaccia di ucciderlo con un simbolo fallico, viene descritta come una veglia funebre, come la ricerca quasi mitologica dell'uomo verso la nuova vita. La quale arriva grazie ad un ricongiungimento con un feticcio femminile totale, una donna che, nella pura tradizione felliniana, è amante ma anche genitrice nel senso di generatrice di vita.
E nella rinuncia al dialogo come forza trainante del racconto, Fellini trova nelle immagini trabordanti e kitsch perfetta forma narrativa, creando sequenze spettacolari e indimenticabili, nel quale l'occhio diviene l'unico senso da appagare. In un capolavoro troppo spesso sottovalutato.
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