sabato 16 gennaio 2021

Druk

di Thoms Vinterberg.

con: Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Magnus Millang, Maria Bonnevie, Lars Ranthe, Susse Wold, Helene Reingaard Neumann.

Drammatico

Danimarca, Svezia, Paesi Bassi 2020














Laddove Lars Von Trier non si è mai distaccato dai dettami del Dogma 95, Thomas Vinterberg è riuscito, in un modo o nell'altro, a superare le barriere estetiche del movimento per (ri)trovare una forma di messa in scena più autentica, benché più convenzionale. E lo stile è forse l'unica cosa di davvero convenzionale in "Druk", inno all'alcool visto, per davvero, come "la causa di e la soluzione a tutti i problemi della vita".


Secondo il filosofo norvegese Finn Skarderud, l'uomo ha un deficit fisiologico di alcool nel sangue pari allo 0.5%; aumentandone il tasso, si è portati a vivere e lavorare meglio. Quattro professori di una scuola danese decidono di provare a seguire questa teoria, con tutti i risultati immaginabili.



Sarebbe facile vedere "Druk" come un atto d'accusa al consumo di alcool, soprattutto quando si tiene conto che la Danimarca soffre di una vera e propria piaga sociale data dall'alcolismo giovanile. L'ispirazione, per Vinterberg, è difatti arrivata grazie alle storie della figlia Ida (che avrebbe dovuto ricoprire una parte nel film, ma che è tragicamente scomparsa pochi giorni dopo l'inizio delle riprese): quasi tutti i quindicenni danesi soffrono di problemi di alcolismo, dovuti sia alla quantità di alcool ingurgitato che alla giovane età in cui si prende il vizio. E non per nulla, il film si apre e si chiude con una vera ricorrenza della gioventù danese, il "giro del lago alcolico" che si celebra solitamente subito dopo il diploma.



Vinterberg, in realtà, fa di più e riflette seriamente non solo sul problema dell'alcolismo in sé, quanto sugli effetti che l'uso e abuso di alcool possono comportare. Non si vergogna ad affermare come, rispettando quel famoso limite del 0.5%, la vita possa cambiare in meglio, come una serie di adulti oramai stanchi anche se appena quarantenni possono davvero riscoprire la gioia di vivere perdendo qualche freno inibitore e come persino il loro ruolo di insegnanti possa trarne giovamento. Non è l'acool in sé ad essere il problema, quanto la schivitù verso lo stesso.


Stupisce, di fatto, la semplicità di come dall'uso si passi all'abuso, come quel bicchierino fatto ad inizio giornata divenga un'ossessione, un comportamento compulsivo che porta alla perdizione e alla conseguente crisi umana. A Vinterberg non interessa tanto puntare il dito contro qualcuno o qualcosa, quanto riflettere sulla facilità della caduta e sulla difficoltà della ripresa. Non per nulla, la sequenza finale, con il ballo di Mikkelsen, è volutamente ambigua, resta sospesa tra un ritrovato amore per la vita ed un gusto immenso per l'autodistruzione.


L'analisi è come sempre fredda, quasi robotica nel suo ritrarre in modo impassibile gioie fugaci ed eccessi nichilistici. Vinterberg conferma la sua mano ferma e la voglia di stupire, provocare senza sogghignare, in un'opera semplice e al contempo complessa.

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