giovedì 21 gennaio 2021

Il Casanova di Federico Fellini

di Federico Fellini.

con: Donald Sutherland, Tina Aumont, Cicely Browne, Carmen Scarpitta, Clara Algranti, Chesty Morgan, Daniela Gatti.

Italia 1976

















Non è semplice per un autore relazionarsi con un progetto non proprio e per Fellini ciò avvenne all'alba della produzione de "Il Casanova"; chiamato da Alberto Grimaldi a portare in scena l'autobiografia del famoso "amatore" veneziano, il grande artista si ritrovò ad odiare quel personaggio, da lui definito come "meschino" perché incapace di amare. E' paradossale, quindi, scoprire come alla fine della produzione, lo stesso Fellini ammise di aver diretto il suo film migliore: quella relazione burrascosa con il suo protagonista portò ad un atto d'amore nel raccontare la storia di un uomo innamorato proprio dell'amore. E "Il Casanova", alla fin fine, se non è proprio definibile come il capolavoro definitivo del suo autore, resta, purtroppo, il suo ultimo capolavoro, un punto esclamativo in una carriera che già dal successivo "La Città delle Donne" avrebbe intrapreso la fase discendente. E forse, per Fellini, non ci sarebbe stato modo migliore per concludere la fase migliore della propria carriera.


Al netto dell'odio, il ritratto che Fellini fa di Casanova è quantomai verosimile: filosofo e letterato, oltre che esperto in economia, politica e alchimia, Casanova è un uomo divorato dalla sua stessa notorietà, i cui pregi vengono eclissati dalla sua nomea di amante. Nessuno è interessato all'uomo dietro le dicerie, tutti vengono affascinati dal solo "stallone". Situazione chiara sin dalle prime battute: chiamato da una monaca ad una alcova di piacere, la soddisfa per il sollazzo di un nobile vouyeurista il quale, concluso l'atto, non ha più interesse alcuno verso di lui. Il Casanova di Fellini è, in prima istanza, un uomo frainteso e sottovalutato, vittima della sua stessa celebrità, che trova nella duplice interpretazione di Donald Sutherland nel corpo e di Gigi Proietti nella voce una perfetta e carismatica rappresentazione fisica.


Ma anche l'amatore, per Fellini, è una creatura difettosa e infelice. L'amore e il sesso sono, per lui, un'attività meccanica, dove il piacere fisico, pur presente, è dato e preso in modo automatico, senza la piena realizzazione, quantomeno non al di là del piano meramente corporale. Le scene degli amplessi vengono coreografate come dei balletti nei quali l'unione, data dal movimento dei corpi, è ritratta come un esercizio ginnico, una serie di ripetizioni di movimenti automatici privi di vera catarsi. Non per nulla, Fellini usa il simbolo di un grufo meccanico per dar far forma alla libido del suo protagonista, un giocattolino che ripete in modo automatico una serie di movimenti sempre uguali. E, per concludere la carriera di Casanova, lo fa accoppiare con un automa, una bambola anch'essa preda di movimenti scattosi e privi di vera volontà.


L'unica eccezione in questa parata di amori puramente materiali viene data dalla bella Enrichetta (Tina Aumont), la misteriosa dama che rubò il cuore di Casanova vestita da ufficiale ungherese. Da un lato, Fellini lancia il seme della bisessualità del suo protagonista, resa esplicita in una celebre scena tagliata, dall'altro si diverte a castigarne la libidine sottolineandone il mal d'amore che lo coglie già durante la breve relazione, il quale esplode quando questa finisce all'improvviso.


E se Giacomo Casanova è un animale lussurioso schiavo delle proprie pulsioni, non da meno è il resto dei personaggi, una parata di nobili incastrati nei vizi del corpo. Il rimando alla Roma pagana del "Satyricon" è esplicito e il grande artista si diverte a descrivere le corti dell'Età della Ragione come dei porcili nei quali sozzi individui si rotolano gaudenti. La corte romana, con un papa fugace e beffardo, è un marasma nel quale il protagonista è costretto ad intraprendere una gara di virilità, trovando per la prima volta una passione non corrisposta, mentre la corte di Gutenberg, dove vi è l'incontro con l'automa, è il luogo dell'umiliazione finale, dove l'erudizione del protagonista si perde tra grida sguaiate e canti goliardici.


Il gusto per l'opulenza traspare da ogni singola inquadratura, con le scenografie di Danilo Donati che si fanno imponenti e al contempo volutamente fasulle, delle quinte teatrali che rispecchiano la falsità delle passioni carnali di Casanova, incarnate magnificamente nalla cerimonia d'apertura, con l'ascensione strozzata dell'idolo dalle acque di Venezia. I costumi, talmente caleidoscopici da divenire kitsch, danno un gusto quasi punk all'estetica, con un enfasi smodata sulla caricaturalità dei personaggi, in particolare sui loro corpi lussuriosi, incorniciati in orpelli che ne esaltano la sfrenata fisicità. Fellini raggiunge così un nuovo vertice di espressività estetica, magnificamente incapsulata in inquadrature mai come qui libere e perfette nel modo in cui incorniciano volti e corpi.


E forse è proprio "punk" il miglior aggettivo per descrivere il "Casanova" di Fellini: un'opera volutamente sfrontata che trova una forma di estrema veridicità nella descrizione del personaggio e si diverte a mistificare un secolo ed una classe sociale con una pernacchia irreverente, divertita e divertente, in quello che resterà, purtroppo, l'ultimo apice del suo cinema.

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