martedì 18 maggio 2021

E la Nave va

di Federico Fellini.

con: Freddie Jones, Barbara Jeffords, Pina Bausch, Victor Poletti, Peter Cellier, Elisa Mainardi, Norma West, Paolo Paoloni, Fiorenzo Serra.

Italia, Francia 1983

















Se il cinema di Fellini è stato fin da subito rielaborazione visionaria e onirica del reale e al contempo riesumazione fantasiosa del passato, "E la Nave va" può essere considerato come la saldatura finale del suo doppio discorso. Un film che arriva tardi nella sua carriera, oramai agli sgoccioli in quel 1983, nonché subito dopo il suo primo vero passo falso, quel "La Città delle Donne" che con questo suo ultimo lavoro ha in comune uno sguardo puntato sulla realtà e filtrato dalla fantasmagoria. Ma "E la Nave va" riesce nel suo intento di creare un ritratto amaro e sentito verso un passato remoto che è anticamera del presente, al contempo ultimo grido di un'era e primo vagito di un'altra.




1914, la nave Gloria N. salpa dal porto di Napoli con a bordo un ensamble di artisti dell'Opera, con lo scopo di dare degna sepoltura alle ceneri della diva Edmea Tetua. A bordo, spiccano però le presenze del giornalista Orlando (Freddie Jones) e del Granduca di Herzog (Fiorenzo Serra).
La riflessione di Fellini agisce su tre piani distinti e al contempo unici: quello artistico, quello storico-sociale e quello più prettamente cinematografico.
Partendo da quest'ultimo, agisce omaggiando l'arte filmica e distruggendo la convenzionalità della medesima. Il film si apre e chiude con un richiamo al cinema muto, ossia al cinema dell'epoca in cui la storia prende piede. La ricostruzione di quel modo di fare cinema, grezzo ma incredibilmente espressivo, prende le forme di inquadrature ampie, con la massa a fare spesso da soggetto e i singoli individui, spesso passanti, usati come mezzi per rompere l'incanto della messa in scena guardando in macchina. Allo stesso modo, il personaggio del giornalista Orlando diviene Cicerone a bordo della nave, con il compito doppio di introdurci nel suo mondo e di infrangere la verosomoglianza di questo parlando sempre in macchina, trasportando lo spettatore oltre la quarta parete. Prima ancora, la messa in scena d'antan prende le forme e si fa doppio del ricordo, il quale, appena riesumato, si dimostra antico, quasi antiquato, per divenire subito "moderno" nel momento in cui questi si fa più chiaro nella mente. La messa in scena antiquata cede un po' alla volta il passo a quella moderna, con i personaggi che cambiano velocità di movimento direttamente sotto gli occhi dello spettatore, escamotage visionario e perfetto.



Ma modernità, ovviamente, non fa rima con verosomiglianza. La messa in scena della nave è volutamente artefatta, come nel precedente "Il Casanova di Federico Fellini": il mare altro non è che un telo di plastica, mentre il sole è un pallone arancio; e il risultato è talmente onirico da sembrare finto persino ai personaggi, in una rielaborazione artistica totale della storia personale e collettiva di questi.
La nave diviene così un non-luogo artefatto ove l'arte stessa si riunisce per una veglia funebre.




Il viaggio verso Erimo è l'ultimo viaggio di una generazione di artisti oramai al tramonto, il cui trucco pesante ne esalta il lineamenti cadaverici. L'Opera e in genere tutta l'arte ottocentesca sta per essere spazzata via dalla Grande Guerra; l'arte che ne seguirà sarà diversa, più sanguigna e popolare, come i canti dei profughi che, da metà film in poi, salgono sulla nave. Questa diventa così un microcosmo dove questi sopravvissuti si rifugiano per un ultimo concerto, una nenia funebre verso un'artista a loro detta totale, la cui prematura scomparsa ha toccato profondamente le loro vite. Prende valore, così, l'emblema del rinoceronte, un animale un tempo vigoroso, ora ridotto a essere moribondo.




L'arte dell'alta borghesia si ritrova così chiusa in se stessa, incapace di relazionarsi con il mondo esterno, il quale prende le forme, anche in questo caso, dei profughi, figure "sporche", lasciate inizialmente ai margini, ma presto abbracciati proprio per la loro capacità di suscitare sentimenti vivi in chi li osserva e ne ascolta i canti popolari, le cui note vivaci sono giustapposte con gusto a quelle auliche e auguste del canto classico.
La guerra prende le forme della corazzata austro-ungarica, la quale irrompe all'improvviso e alla fine distrugge l'intero microcosmo creatosi. Le sue forme, geometriche e torreggianti, si contrappongono alla giovialità dei canti e allo stile barocco e caldo degli interni della nave. E la guerra è il principio della fine, sia nell'arte che nella vita. Nello scoppio della Prima Guerra Mondiale, Fellini rinviene il seme della violenza (all'epoca) odierna, con gli schieramenti opposti pronti a distruggersi in nome di qualche sparuta idea e, in mezzo, il popolo e gli artisti a farne le spese. La narrazione assume così un valore diverso, non più quello di un semplice omaggio a un mondo perduto, quanto quello di un ritratto di un mondo ancora vivo e di un orrore ancora presente.



Il finale, tuttavia, aggiusta il tiro del dramma. Da un lato, con l'esposizione della finzione dietro la finzione della messa in scena, Fellini omaggia quel mondo di artisti odierni senza il quale non sarebbe possibile creare un'arte quale il cinema; un'arte che per forza di cose necessita di un lavoro collettivo ed uno sforzo produttivo non indifferente. Dall'altro, chiude il film con un'immagine potente e simpatica: il giornalista si salva e porta con se il rinoceronte; c'è ancora speranza, l'arte è pronta a rinascere o, anche più semplicemente, a continuare ad esistere in barba alla violenza.




L'omaggio diviene così allegoria potente e amorevole verso l'arte del passato e quella del presente e la veglia funebre si fa inno alla vita e alla vitalità di queste. Ed è emblematico come questa fantasmagoria sia l'ultima fatica produttiva di Fellini, che a partire da "Ginger e Fred" e fino alla fine della sua carriera, non userà più scenografia, costumi e fotografia a questi livelli, trovando una messa in scena più naturalistica e talvolta meno espressiva.




"E la Nave va" può quindi essere visto come il vero testamento artistico di Fellini (nonostante il valore di "Ginger e Fred" e di alcune intuizioni sviluppate in "Intervista"), l'ultimo ruggito del sui cinema in un contesto umano, culturale e sociale che ben presto non avrebbe lasciato spazio al cinema visionario, preferendo forme di messa in scena decisamente più blande e meno ricercate.

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