con: Marcello Mastroianni, Donatella Damiani, Anna Prucnal, Berenice Stegers, Jole Silvani, Ettore Manni, Fiammetta Baralla, Malisa Longo.
Italia, Francia 1980
Sarebbe facile etichettare l'ultimo periodo produttivo di Fellini come "trascurabile". Facile, si, ma scorretto, perché tra produzioni meno riuscite ci sono altre più interessanti e persino all'interno del medesimo film i momenti malriusciti sono comunque inframezzati da trovate geniali. Il grande artista non ha semplicemente esaurito la sua verve, è solo prigioniero delle sue stesse visioni, il che lo porta a ripetersi o, peggio, ad arrivare a conclusioni, filosofiche più che filmiche, discutibili.
E' il caso, quest'ultimo, de "La Città delle Donne", fantasmagoria nella quale Fellini affronta i postumi dell'emancipazione femminile arrivando però a rifugiarsi nel passato per fuggire da un presente che non comprende.
La donna (per fortuna) non è più la creatura indifesa de "La Strada". Dopo anni di proteste, è riuscita a raggiungere un ruolo di spicco nella società e rivendica con forza la propria identità, sia essa sociale che sessuale. E come nel cinema di Marco Ferreri, sembra sia arrivato il momento per l'uomo di eclissarsi... forse.
Mastroianni torna come Snàporaz, nuovamente doppio di Fellini, ma che qui finisce, forse involontariamente, per incarnare quella visione dell'uomo medio alienata rispetto alla figura femminile. Snàporaz è (ancora) un seduttore, pronto a correre dietro alla prima avvenente femmina che incontra... solo per precipitare in un non-luogo (la "città delle donne" del titolo) abitato da amazzoni arrabbiate e stanche del loro ruolo subalterno rispetto all'uomo. E come in passato, Fellini spezza il racconto in episodi per concentrarsi su singoli aspetti e singole visioni; in tutto, ci sono tre macrosequenze nel film: quella della riunione delle femministe, l'arrivo a casa del dottor Katzone e il luna park finale.
La prima parte è anche la più interessante e riuscita. Fellini assiste qui alla presa di potere delle donne e, facendosi uomo comune, ne resta esterrefatto. La sua è una celebrazione di una forza ritrovata, di un'emancipazione totalizzante che porta al superamento del ruolo della donna come "oggetto casalingo", da cui la bella gag del "mostro" che violenta la casalinga. Quella delle donne, qui, è una ferocia acuita dagli anni di sottomissione e che ora trova uno sfogo integerrimo.
Il maschio resta spaventato e sottomesso dalla furia femminile e non può che assistere in silenzio al processo evolutivo. La paura è l'unica emozione che può provare e Fellini si diverte ad umiliare il proprio alter-ego di fronte alla sessualità espressa anche dalla più improbabile delle partner, nella scena, divertente e provocatoria, della matrona in motocicletta, che quasi violenta il povero protagonista.
C'è una forma di complicità verso queste donne che sgomitano per un proprio posto nel mondo, per questa nuova coscienza di genere che le guida e per la rappresentazione dell'emancipazione, con Snàporaz volutamente umiliato, rimesso in riga da quell'essere che lui ha sempre considerato come puro oggetto.
L'antro del Dottor Katzone (interpretato con trasporto da Ettore Manni, purtroppo deceduto durante le riprese) è un vero e proprio mausoleo alla mascolinità, un alcova ripiena di simboli falici (gli obelischi, i treni, la lampada) nella quale il padrone di casa è un ultimo esponente della razza dei seduttori; le sue conquiste sono ritratte come vittime, ricordate in un vero e proprio santuario dal quale emerge la moglie di Snàporaz, quella donna per la quale lui non sembra provare più nulla.
L'apice della carriera del seduttore (le sue 10 mila conquiste, appositamente festeggiate) è anche la sua conclusione: la "gestapo delle lesbiche" ne frustra l'attività "uccidendone" la virilità; l'uomo non può più reclamare il suo ruolo di conquistatore ora che la donna non è più oggetto. Ed è purtroppo a questo punto che la visione e la riflessione di Fellini si incagliano.
Nel perdersi tra i meandri dei sogni di Snàporaz, Fellini ricicla il suo stesso immaginario. Torna il circo, questa volta declinato come luna park e, soprattutto, il ricordo delle figure femminili del passato, gli episodi formativi, come la visita al bordello e la "prima volta, così come lo spaccato della mente di un personaggio che, nel nome e nei fatti, torna ad essere quello di "8 1/2". Il tutto sa di già visto e Fellini non riesce a dare al tutto né un nuovo significato, tanto meno un nuovo significante. Si assiste così ad una sfilata di luoghi comuni del cinema dell'autore, che si fanno così processione di ombre incapaci di incantare come una volta, data la loro natura di epigoni, di visioni riciclate senza più ispirazione.
Quel che è peggio, le visioni divengono forma di un pensiero retrograda. E' nell'ultimissima parte che Fellini sembra voler fare un passo indietro e cominciare a guardare di sbieco la "nuova donna"; se già nell'episodio ponte tra l'hotel e il castello di Katzone portava in scena le rovine di una gioventù sfemminilizzata, composta da valchirie drogate e anarchiche, in totale controtendenza alla donna intellettuale e liberal dell'incipit, nell'ultima parte il grande artista si rivela schiacciato dalla femminilità moderna, prova a rifugiarsi nel passato (il ricordo dei primi amori e persino un omaggio a Stanlio e Ollio, ombre di un cinema che fu), a perdersi tra le braccia di una forma femminile idealizzata, ossia la mongolfiera che ha le forme prosperose e provocanti di Donatella Damiani, solo per essere castigato dalla vera Damiani, ora terrorista che uccide la visione di sé.
Se ad una visione superficiale una tale metafora sembra voler esprimere la liberazione della donna dal cliché dell'oggetto sessuale, ad un'analisi più attenta ci si accorge di come Fellini veda il tutto con un occhio di rammarico, preferendo la Damiani come la "soubrettina" svestita che compare nei momenti più caldi delle visioni del suo protagonista. Passo indietro? Volontà di dar corpo ad una visione non propria, ma fortemente radicata nella mentalità italiana (non solo) dell'epoca? Dalle immagini non è dato discernere, tanto che alla fine la prima soluzione sembra anche la più azzeccata. Purtroppo.
La visione si fa quindi insostenibile, non si capisce che valore dare a questa fantasmagoria che ha il difetto peggiore di essere una reminiscenza sbiadita, persa nella pura contemplazione di se stessa e di un soggetto, quello femminile, nei confronti del quale non sa come porsi. La visione d'autore si perde, così, ineludibilmente e questa opera finisce con l'essere malriuscita e discutibile.
Ma non tutto, ovviamente, è da biasimare: laddove le visioni sono vecchie, la voglia con cui Fellini le porta in scena è sempre irrefrenabile, prova di come, in fondo, il suo talento non si sia ancora esaurito.
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