di Mona Fastvold.
con: Katherine Waterson, Vanessa Kirby, Casey Affleck, Christopher Abbott, Karina Gherasim, Ioachim Ciobanu, Daniel Blumberg.
Drammatico
Usa 2020
---CONTIENE SPOILER---
Un mondo a venire, altro, diverso rispetto a quello nel quale si è confinati. "World to Come", secondo lungometraggio di Mona Fastvold trionfalmente presentato allo scorso Festival di Venezia, è la cronaca di un amore impossibile, che ovviamente ha un prevedibile epilogo tragico, ma che si discosta da tanta cinematografia americana indie contemporanea per alcune scelte narrative e stilistiche vincenti.
La storia, tratta da un racconto del co-sceneggiatore Jim Shepard, è quanto di più ovvio si possa immaginare: a metà del XIX secolo, nella regione boschiva dello stato di New York, Abigail (una straordinaria Katherine Waterson) è sposata con l'introverso Dyer (Casey Affleck, anche produttore). La sua vita cambia drasticamente all'arrivo di Tallie (Vanessa Kirby), la quale, pur sposata con l'oppressivo Finney (Christopher Abbott), intreccia con lei una travolgente relazione amorosa.
La critica al patriarcato come insensibile o oppressivo è sin troppo semplice, date le coordinate storico-geografiche in cui si svolge la vicenda. Per fortuna la Fastvold è più propensa a raccontare una storia d'amore impossibile in modo inusuale. Quella tra Abigail e Tallie è innanzitutto la storia di un'affinità che le due donne non sono riuscite a trovare nel talamo nuziale e che non è compensata neanche dal ruolo di madre, loro negato a causa del lutto e, forse, nel caso di Tallie della malattia.
Il rapporto tra le due protagoniste viene ancorato dell'empatia, la relazione carnale è relegata solo a sparuti flashback nel finale; quel che interessa è il ruolo di compagna che ciascuna trova nell'altra. Una compagna come confidente, come anima gemella in grado di comprendere umori e sensazioni in modo diretto, automatico, senza bisogno della comunicazione. Il che funziona grazie soprattutto all'alchimia tra le due attrici, dove soprattutto la Waterson colpisce per l'estrema e naturale espressività.
Echi bronthiani giungono dalla giustapposizione tra il calore della relazione con l'asprezza della natura, forza disgregatrice e maligna, pronta a punire la felicità altrui prima ancora della figura maschile. Ma la regia si concentra maggiormente e quasi esclusivamente sull'emotività dei personaggi, lasciando fuori dal racconto quella che poteva essere una dualità interessante.
Fortunatamente, il racconto vive, oltre che grazie agli interpreti, per merito di una regia attenta, che non si fossilizza sui personaggi e cerca sempre di trovare spazi inediti, talvolta spettacolari, in cui farli muovere.
Il risultato, pur non essendo memorabile, è quantomeno riuscito e certamente più interessante di tanto cinema d'autore "alla mòde" che spesso invade le sale (o i servizi streaming) in cerca di facili riconoscimenti. Il che, si spera, porti fortuna alla sua autrice.
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