con: Rosamund Pike, Peter Dinklage, Eiza Gonzalez, Dianne Wiest, Chris Messina, Isaiah Whitlock Jr., Alicia Witt, Damian Young.
Inghilterra, Usa 2020
---CONTIENE SPOILER---
E' davvero difficile parlare di "I Care a Lot" senza partire dal colpo di scena finale, quel colpo di oda che arriva a pochi istanti dai titoli di coda e sovverte quasi del tutto quanto si è visto sin dall'inizio. La morte di Marla, la protagonista e punto di vista principale della storia, pone tutti gli eventi sotto una luce diversa, almeno dal punto di vista del narratore. E quel narratore, J Blakeson, reduce dal disastroso "La Quinta Onda", tornando ad un cinema a misura di personaggi, dimostra una dimestichezza e una chiarezza di visione rimarchevoli.
Marla (Rosamund Pike) è una donna ambiziosa che ha avviato un businness porco ortodosso, ma redditizio: con la complicità di un medico corrotto e del direttore di una casa di cura privata, si fa nominare tutrice legale di anziani facoltosi, solo per farli ricoverare contro la loro volontà e spogliarli di tutti gli avere. Il gioco regge bene, finché non incappa nella sig.ra Peterson (Dianne West), la quale custodisce un segreto letale, agghindato con irresistibili diamanti pronti.
Marla è quella che un tempo si sarebbe definita "yuppie rampante", una donna dalla bussola morale saldamente ancorata sull'immoralità più pura. Tutto ciò che conosce e che vuole conoscere è il successo, la più piena affermazione individuale, sia materiale che "morale", sul prossimo. Una donna in grado di schiacciare tutto e tutti pur di ottenere il successo, che coincide con la ricchezza. Le sue vittime non sono che foto su di una parete, clienti che non sono altro che mucche da mungere sino all'ultima goccia. Il suo personaggio è una sorta di Gordon Gekko post 2000 o un Tony Montana che agisce sulla soglia della legalità; e se lei disumanizza il prossimo è perché ha già disumanizzato se stessa: persino la sua relazione con la fidanzata Fran (Eiza Gonzalez, splendida come sempre) sembra basata sulla sessualità prima che sull'amore; lei è, in tutto e per tutto, la leonessa che si proclama e che sta per incontrare la sua degna nemesi.
Il gangster Lunyov (interpretato con gusto dal sempre ottimo Peter Dinklage) altro non è se non una versione maschile di Marla, un uomo che è stato in grado di fare tutto pur di arrivare in cima, persino fingere la propria morte. Un re che ha però una fatale debolezza, ossia sua madre, caduta nelle grinfie dell'arpia bionda. Il suo scontro con Marla è inizialmente basato solo sullo "sgarro" di aver scelto la vittima sbagliata, ma ben presto si trasforma in un confronto tra predatori, un gioco al rialzo sul chi ha l'ultima parola nel manipolare e distruggere la vita altrui.
Marla e Lunyov altro non sono se due "corporations" che offrono un servizio e che ragionano sulla base del proprio interesse economico. Due tycoon ramparti il cui scontro finisce in quello che da un punto di vista sembrerebbe il più improbabile dei modi, ma da un punto di vista imprenditoriale è il più ovvio, ossia una fusione che porta alla crescita e all'arricchimento reciproco. Se all'inizio il loro ruolo di personificazione del capitalismo rampante era puramente metaforico, nel finale diviene letterale, trasformandoli in quel famoso 1% che domina, letteralmente, la società.
Tutto questo, ovviamente, sino al finale, dove il personaggio di Marla ritrova la sua umanità. Lei, l'invincibile, capace di sopravvivere ai tentativi di assassinio più complicati e di cadere sempre in piedi, lei che si credeva greater than life viene prosaicamente riportata ad una dimensione umana e materiale tramite la morte. Non una morte qualsiasi, né una morte connaturata al suo ruolo, bensì la rivalsa di una delle sue vittime comuni, un uomo qualunque, il quale nel prologo viene da lei umiliato per affermare il proprio status di donna forte e indipendente, di creatura libera da regole sociali o morali. Proprio quell'uomo comune, quella goccia in mezzo all'oceano del 99%, è, in ultima analisi, la sua vera nemesi, il vero castigo divino che discende per ricordarle che nessuno è davvero intoccabile e che i moderni Scarface sono comunque alla mercé di chi ne garantisce l'affermazione.
Blakeson tiene salde le redini della regia; se la storia sembrerebbe uscita dalla mente dei fratelli Coen, la messa in scena trova una sua fonte caratterizzante nell'uso moderno delle musiche al synth e dei colori innaturali, che restituiscono una dimensione disumana, quasi cibernetica, alla storia; giustapposizione semplicemente perfetta per un racconto disumano sulla disumanizzazione, il quale rende il tutto compatto oltre che incredibilmente riuscito.
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