venerdì 29 dicembre 2023

Saltburn

di Emerald Fennell.

con: Barry Keoghan, Jacob Elordi, Rosamund Pike, Alison Oliver, Archie Madekwe, Richard E.Grant, Carey Mulligan, Paul Rhys, Sadie Soverall, Richie Cotterell, Millie Kent, Will Gibson, Aleah Aberdeen.

Usa, Regno Unito 2023


















---CONTIENE SPOILER---

Non c'è cosa peggiore per un autore che l'indecisione, il dubbio non solo su come raccontare una storia, ma anche su cosa effettivamente comunicare con essa. Indecisione che affliggeva Emerald Fennell già in "Promising young woman", il quale non sapeva se essere la celebrazione della giusta vendetta di una vittima o la decostruzione di un personaggio borderline deviato. Indecisione che affligge ancora di più "Saltburn", nel quale si palesa anche sul piano del racconto piuttosto che della semplice storia.




Un'opera seconda che mischia "Il Talento di Mr.Ripley" a "Parasite", ma che sembra ispirarsi soprattutto niente meno che a Pasolini e al suo insuperato "Teorema", dal quale riprende i lineamenti della storia: Oliver Quick (Keoghan), nonostante il nome da supereroe mancato, è un ragazzo di brutto aspetto e proveniente da un ambiente famigliare disastroso, il quale vince una borsa di studio per Oxford. Qui incontra il bello e ricco Felix Catton (Elordi), del quale si invaghisce. Entrato nelle sue grazie, viene invitato a passare l'estate nella sua residenza a Saltburn, dove conosce la sua viziatissima famiglia, le cui vite verranno così sconvolte.




L'equilibrio di potere rispetto al capolavoro pasoliniano è quasi invertito: non è Oliver ad essere un provocatore affascinante, almeno non inizialmente. Ed è qui che si palesa lo sbaglio insito nel casting di Barry Keoghan: il suo volto, sovente sfregiato dai butteri, viene reso più bello e non si sa perché visto che in teoria il personaggio dovrebbe essere esteticamente ripugnante; quando poi si comincia ad indugiare sul suo corpo da adone palestrato, la credibilità si perde del tutto.
L'ingresso del povero brutto anatroccolo nel circolo dell'alta società è scisso in due parti, una più insicura dell'altra. La prima, più riuscita, lo vede nel ruolo del giocattolo dell'amico facoltoso, dei suoi strani genitori, della bella sorella e di quel cugino talmente antipatico da sembrare la macchietta di uno sketch comico. La seconda, decisamente rovinosa, vede il sovvertimento degli equilibri di potere, con Oliver che diventa di punto in bianco l'equivalente moderno di Terence Stamp; ed è qui che i problemi di scrittura iniziano a sorgere.




Sebbene tutta la storia vada comunque letta in funzione dei colpi di scena (in realtà alquanto telefonati, soprattutto quello finale), il passaggio da vittima a carnefice è sin troppo repentino, con Oliver che passa da preda a predatore nell'arco di un semplice stacco di montaggio, facendo intuire praticamente subito le sue vere intenzioni. Da cui deriva l'insicurezza di una narrazione che non vuole svelare subito le carte per il puro gusto di ridurre il tutto ad un coup de theatre frivolo.
L'insicurezza dello sguardo della Fennell si rivela in tutta la sua goffa potenza sin dalle prime sequenze. Porta in scena un mondo di super ricchi super viziati, con personaggi caricaturali dei quali il solo Felix ha qualche qualità redimente, eppure resta costantemente affascinata dal loro stile di vita decadente, da quel lusso senza limiti e urlato in faccia, dalla loro condotta infantile e sessualmente esuberante proprio come quel protagonista che vuole carpire quella ricchezza per puro gusto edonistico. La sensualità di quei loro corpi, la ricercatezza degli abiti, lo sfarzo degli ambienti non è quindi il sintomo di nessuna vacuità, quanto un modello del quale restare ipnotizzati. Tanto che l'ambientazione "storica" data da quel 2006 vicino al picco del culto della decadenza assume un significato quasi nostalgico.




L'insicurezza peggiore è quella data dalla messa in scena. Laddove le immagini sono ricercate, la Fennell decide di girare tutto il film con un formato in 4:3 senza alcun motivo apparente e solo per omologarsi alla moda del momento, rendendole così inutilmente patinate, come le foto di una rivista di moda, in un'estetica sin troppo laccata per quello che dovrebbe essere un dramma feroce e dove la dicotomia tra la bellezza formale e la cattiveria dei contenuti non si avverte mai per davvero, essendo la prima l'unica avvertibile.
Cerca, poi, costantemente la provocazione con scene shock, le quali però alla fine risultano più scioccanti sulla carta che su schermo. La scena del "bacio mestruale" non colpisce allo stomaco quanto dovrebbe, quella della masturbazione notturna è stranamente casta per gli standard odierni, così come la scena madre del coito sulla tomba, sforbiciata al montaggio proprio quando sembrava dovesse raggiungere il vero picco di disturbo. L'unica davvero efficace è quella in cui Oliver beve l'acqua della vasca da bagno nella quale Felix si è masturbato, ma è davvero troppo poco per un film che ha tra i suoi numi ispiratori il provocatore per antonomasia e creatore dell'inarrivabile "Salò".
Quando poi la Fennell cerca disperatamente di creare qualcosa di iconico, il disastro è servito: quella scena finale, con Keoghan che balla nudo sulle note di "Murder on the dance floor" mentre gioca con le pietre in ricordo dei morti, sfoggiando il suo fisico da modello di Versace, è da scult immediato; e risulta persino pedante e inutile nell'economia di tutto il racconto.




Cosa ha davvero cercato di fare la Fennell con "Saltburn"?
Forse un ritratto decadente di una società nella quale il più forte mangia il più debole; cosa del tutto non riuscita poiché non c'è un vero sguardo di biasimo verso i personaggi, né quel distacco clinico che avrebbe reso il tutto più interessante.
Forse un dramma su come personalità vuote possano essere manipolate per un proprio tornaconto personale; intento in parte riuscito, ma che non giustifica l'insistenza sugli aspetti più odiosi di un protagonista che avrebbe funzionato maggiormente come vero arrampicatore sociale proveniente dalla miseria.
Forse un melò su di una relazione "tossica", il quale lascia però tutto il tempo che trova.
Esso possiede tutte queste anime e non riesce mai ad amalgamarle, restando così del tutto indigesto.




"Saltburn", alla fine, è così un mero atto provocatorio goffo e ingenuo, oltre che del tutto incosciente della propria natura contradditoria. C'è chi ne apprezzerà la finta carica dissacrante scambiandola per genuina, frutto della poca dimestichezza con storie del genere e autori più il cui sguardo è più profondo, sagace e intellettualmente stimolante, pregi che quello della Fennell purtroppo non ha.

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