martedì 12 novembre 2019

Parasite

Gisaengchung

di Bong Joon-Ho.

con: Kang-Oh Song, Yeo-Jeung Jo, So-Dam Park, Woo-Sik Choi, Sun-Kyun Lee, Jung Ziso, Seo-Joon Park, Jeun-Eun Lee.

Corea del Sud 2019
















---CONTIENE SPOILER---

Andata e ritorno col botto, quello di Bong Joon-Ho. Un'andata verso i lidi hollywoodiani, ma non mainstream, verso quelle produzioni transnazionali e in lingua inglese che ne hanno sdoganato la fama anche al di fuori del solo circuito dei festival, con due opere del calibro di "Snowpiercer" e "Okja". Un ritorno, quello in patria e ad un cinema più piccolo (anche se solo in parte), certamente meno spettacolare ma, forse proprio per questo, ancora più dirompente. "Parasite" è un'opera politica che, come "Snowpiercer", di "politico" in senso stretto non ha nulla, se non la ferocia sessantottina nel ritrarre una società, quella sudcoreana così moderna e per questo così universale, che collassa su sé stessa a causa dell'idiozia e della bramosia di chi la popola.



Al centro della narrazione, due nuclei familiari, i Kim e i Park, sottoproletari i primi, alto-borghesi i secondi. I Kim vivono in uno scantinato con vista su ubriachi che urinano, i Park in un lussuoso villino disegnato da un architetto di grido; i Kim si arrabattano come possono per tirare avanti, scroccando il wi-fi e le pubbliche disinfestazioni, i Park annegano nel lusso più sfrenato. Due vite agli antipodi, in tutti i sensi, che sembrerebbero scorrere parallele finché Kim Ki-Woo non riesce ad ottenere il posto di insegnante privato per la primogenita Park Da-Hye, episodio che porterà le due famiglie ad incontrarsi in un modo inusuale.



Un incontro che, come il titolo suggerisce, porta alla creazione di una subordinazione. Non tanto quella dei Kim verso i Park in quanto sottoposti dediti a "servire" la famiglia più ricca, quanto quella dei Park come vero e proprio organismo ospite di un nucleo familiare che si insinua al suo interno come i batteri dentro un corpo sano, un tumore che anzicchè sostituire le cellule, si appropria della "res" accumulata dal corpo nel quale si addentra. Si arriva ad una vera e propria sovrapposizione dei componenti di una famiglia sull'altra, ad uno scambio a senso unico dell'identità sociale data dall'appropriazione della proprietà.



Ma lo sguardo di Bong Joon-Ho non è né benevolo, nè superficiale, non testimonia la rivincita sociale dei meno abbienti sui ricchi, bensì il collasso dell'intero sistema nel nome del più brado "cane mangia cane" nonché lo scontro tra poveri più bieco.
La cattiveria è insita nello stesso cinismo con il quale si approccia ai suoi personaggi. Mentre i miserabili sono talmente affamati da non guardare in faccia niente e nessuno pur di avere un guadagno, i ricchi sono come dei bambini dediti alla contemplazione del superfluo, lontani da ogni realtà (il gioco degli indiani) e persi nella convinzione che qualsiasi cosa possa essere ottenuta tramite il denaro. Lo scontro vero e proprio tra città alta e città bassa si ha solo alla fine del climax, con la rabbia suscitata dall'insensibilità verso il proprio opposto, quella capacità di schifarsi dell'odore penetrante della povertà persino nei momenti di pericolo.



Il conflitto, semmai, sorge tra gli stessi poveri, tra quei soggetti affamati di benessere i quali possono solo attaccarsi all'organismo ospite per sopravvivere e combattere per restarvi attaccati. Un conflitto feroce quanto grottesco, nel quale ogni scorrettezza è possibile.
Conflitto che, pur tuttavia, non porta a nulla: ogni piano viene distrutto dal caso o dalla reazione umana, ogni attività è, di conseguenza, destinata a fallire, in un maelstorm nel quale ognuno resta saldamente ancorato al proprio posto, i ricchi in alto, i poveri in basso, estrinsecazione della più bieca forma di determinismo sociale.



Non c'è identità nazionale che tenga: tra canzoni italiane, giochi agli indiani, lezioni di inglese e sfottò a Kim Jong-Un, il darwinismo sociale è materia universale, per questo ineludibile.
Bong Joon-Ho si limita ad osservare il conflitto, a seguirlo con occhio quasi clinico, prediligendo movimenti di macchina fluidi quando si addentra nell'antro dei Kim, più geometrici e freddi in quello dei Park, rimarcando il gap sociale anche tramite la pura attività stilistico-estetica.



Il risultato è un perfetto ed impietoso ritratto che, giocando anche con i generi, avvince e stupisce, rilanciando costantemente storia e personaggi in un crescendo distruttivo dal quale nessuno si salva, tranne lo spettatore, che a fine proiezione sarà inequivocabilmente chiamato, questa volta si, a scegliere quale delle due fazioni sia la peggiore. Cinema che è ottimo cibo per la mente oltre che per l'occhio.

1 commento:

  1. Ti ringrazio. Il film è costellato di piccoli colpi di genio: l'odore, la canzoncina che Jessica canta prima di entrare nel personaggio, gli indiani. Davvero grande ;)

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