di Sam Peckinpah.
con: Warren Oates, Isela Vega, Robert Webber, Gig Young, Kris Kristofferson, Helmut Dantine, Emilio Fernandez.
Usa, Messico 1974
Per tutta la sua carriera, Sam Peckinpah si è portato addosso lo stigma di "pornografo della violenza", indicato come un autore compiaciuto del sangue e della cattiveria dei propri film. Segno "maledetto" dovuto sopratutto a due dei suoi capolavori, ossia "Cane di Paglia" e "Il Mucchio Selvaggio", film sicuramente truci, ma nei quali la violenza è sempre catartica, mai gratuita.
Con "Voglio la Testa di Garcia", Peckinpah mischia le carte in tavola e decide di rispondere colpo su colpo ai propri detrattori, dirigendo la sua pellicola più amara e nichilista, un'analisi spietata di un mondo nel quale la violenza più genuina regna sovrana e a farne le spese sono sempre e solo i più deboli.
Un ricco proprietario terriero messicano, circondato da un vero e proprio esercito di guardie del corpo, scopre che la figlia ha avuto una relazione clandestina con uno dei suoi "bravados", Alfredo Garcia e pone sulla sua testa una taglia da un milione di dollari. Alcuni suoi collaboratori, per incassarla, incaricano il barista e cantante Bennie (Warren Oates) di recuperare la testa del ricercato, in cambio di 10 mila dollari, somma che, pure esigua, potrebbe cambiargli la vita.
Peckinpah descrive una società allo sbando, dove i più forti hanno già vinto e distrutto ogni forma di moralità. Non c'è qui un sistema di valori antico da giustapporre alla corruzione moderna, la quale vige come unica regola a-morale. I personaggi, di conseguenza, sono tutti più o meno marci, a partire da Bennie, incarnato da un Warren Oates magnifico, in uno dei suoi pochi ruoli da protagonista assoluto.
Bennie è un uomo alla deriva, un outsider tra gli outsider, gringo arenato da qualche parte nel Messico più profondo, lontano da tutto e da tutti. La caccia alla testa diviene per lui l'occasione di riscatto, l'opportunità di cambiare vita, tornare forse negli Stati Uniti e coronare il sogno d'amore con la bella Elita (Isela Vega). Ma Bennie si muove pur sempre in un mondo turpe, il quale riserva sempre qualche sorpresa.
La violenza, in "Voglio la Testa di Garcia" è al contempo strumento e ostacolo. Bennie usa la violenza per farsi strada sino al suo obbiettivo e al contempo è ostacolato dall'ostilità di chiunque gli si pari innanzi. La progressione del suo cammino diviene così non-lineare, fatta di deviazioni e vicoli ciechi dovuti o all'esercizio della violenza o all'incertezza.
Nel primo caso, Bennie viene letteralmente fatto prigioniero da due hippie, quasi due controfigure dei protagonisti di "Easy Rider" (uno dei quali interpretato da Kris Kristofferson), i quali però non vengono in pace, ma per approfittarsi di Elita. Proprio questo è un punto cruciale: nel mondo che Peckinpah descrive, le prime vittime sono le donne, piegate al volere degli uomini, sfruttate, schiaffeggiate e infine uccise, distrutte dalla vis mortifera di un essere umano che oramai sembra potersi esprimere se non che tramite la distruzione del prossimo.
La progressione diviene così discesa verso un fondo morale prossimo all'Inferno vero e proprio. L'oggetto tanto agognato, la testa di Garcia, è invisibile, quasi un pretesto per scatenare un massacro che sembra non avere fine. Massacro che, a differenza di quanto avveniva nelle precedenti opere dell'autore, qui non è mai catartico, non porta ad una risoluzione, tanto che l'unica fine possibile viene preannunciata già all'inizio dell'ultimo atto, sinché la narrazione non si interrompe con un'immagine esemplare, una bocca da fuoco che spara verso lo spettatore annunciando la distruzione dello stesso dopo aver distrutto tutto il possibile. La violenza diviene così totale ed inevitabile, ma privata di ogni risvolto epico, divenendo pura distruzione fine a sé stessa.
Una violenza che Peckinpah non cela, che continua a ritrarre in modo esplicito anche se meno spettacolare che in passato. E così come frammenta la narrazione, allo stesso modo frastaglia le immagini in un montaggio ancora più spezzato e a-sincrono, come se le stesse fossero anch'esse vittima del male che cinge i personaggi.
Il tono passa così dal crepuscolare al nichilista: non c'è un solo valore positivo a controbilanciare il male. L'amore, unica salvezza, viene distrutto fuori scena, piegato sino a spezzarsi all'esigenza egoistica di esseri umani resi bestiali dall'avarizia.
E proprio in tale bieco nichilismo, Perckinpah trova una perfetta e nuova dimensione poetica, ammantando la storia di un pessimismo mai romantico né compiaciuto, trovando un equilibrio perfetto nel ritrarre un male assoluto, in quello che è forse il suo capolavoro più sottovalutato.
E qui mi cogli impreparato, perché non ho mai visto "Revenge". Cmq complimenti per la retrospettiva su Tony Scott, davvero ben fatta ;)
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