The Wild Bunch
di Sam Peckinpah.
con: William Holden, Ernest Borgnine, Robert Ryan, Warren Oates, Edmond O'Brien, Ben Johnson, Jamie Sanchez, Emilio Fernadez, L.Q. Jones, Strother Martin, Bo Hopkins.
Western/Crepuscolare
Usa 1969
1969: la disillusione serpeggia tra le strade dell'America. L'assassinio dei Kennedy e di Martin Luther King, le immagini scioccanti degli orrori della Guerra del Vietnam ed il malcontento per l'amministrazione Nixon creano un clima di sfiducia nel futuro che, ad oggi, non ha pari nella storia degli Usa.
Al cinema, la politica degli autori fa rinascere Hollywood: nascono capolavori amari quali "Un uomo da marciapiede" e "Gangster's Story", perfetta declinazione della violenza e della mancanza di speranza che si respira fuori dalle sale. Mentre il genere americano per antonomasia, il western, subisce un'evoluzione, entra nella sua fase crepuscolare.
E' nel '69, infatti, che il western crepuscolare trova piena affermazione. Dopo i primi lavori di Peckinpah, escono quasi in contemporanea "C'Era una volta il West", "Il Grinta" e, sopratutto, "Il Mucchio Selvaggio" a dar nuova declinazione al genere.
Declinazione che è pura rappresentazione, deformata ed iperbolica, degli umori della società civile; ed il capolavoro di Peckinpah è in tal senso il più esemplificativo: gli eroi del west non sono tali, sono un gruppo di fuorilegge che si è spostato verso il Messico per continuare le proprie scorribande; pistoleri oramai vecchi, messi gli uni contro gli altri dai potenti, che hanno dalla loro solo un fortissimo codice cameratesco, un senso dell'onore che, oramai in pieno XX secolo, è quasi un rottame inutile. Su tutto vige un senso di disfatta e, sopratutto, una violenza feroce, dalla carica distruttiva inusitata.
Peckinpah stesso sarebbe stato un perfetto membro del suo mucchio selvaggio: alcolista irredento, poi cocainomane, perennemente in opposizione ai dettami dei produttori, si ritrova spesso in rotta di collisione con tutto e tutti, figlio, com'è, di un disagio che lo porta ad una forma alienativa verso il mondo in cui vive, privo di coordinate morali riconoscibili. Da qui il suo forte attaccamento verso un mondo sicuramente idealizzato, ma dal carattere puro, sincero, dove la violenza è esternazione di quel male interiore che lo affligge e, sopratutto, il senso di libertà è un imperativo, al pari del senso dell'onore individuale e collettivo.
Ne "Il Mucchio Selvaggio", ancora più che in passato, Peckinpah canta la fine violenta di quel mondo da lui tanto agognato ed adorato, la morte di quel pugno di personaggi che tanto adora e, con loro, del genere in cui possono essere racchiusi. Anche se, in senso lato, "Il Mucchio Selvaggio" ha ben poco a che vedere con il western classico in senso stretto: non è un epica su di un manipoli di eroi, nè la canzone delle loro gesta, quanto la decostruzione distruttiva del western stesso, dove il senso dell'avventura, pur presente, si scontra con quello del massacro.
Massacro che apre e chiude il film, in due scene che da sole basterebbero ad etichettarlo come "capolavoro", anche solo esclusivamente sul piano tecnico-stilistico. Peckinpah trova una nuova dimensione spazio-temporale in un montaggio spezzato, anzi "maciullato", dove le immagini si muovono a diversa velocità ed i tagli sono talmente veloci da non poter essere percepiti dall'occhio nudo. Il concetto di massacro trova così una perfetta forma filmica nella distruzione di ogni linearità: il montaggio diviene strumento distruttivo più che costruttivo, decretando la fine di ogni possibile unità nel narrato. Inutile sottolineare il successo di tale tecnica, alla quale John Woo e sopratutto Micahel Bay devono tutto.
Massacro che diviene tema centrale, inteso come fine violenta di un'epoca: la violenza è quella del Vietnam, delle vite spezzate in modo sadico e compiaciuto da un sistema oramai corrotto, rappresentato dal generale messicano finto rivoluzionario, un sadico che si diverte ad opprimere chiunque gli capiti a tiro. Da qui la morte dell'epoca dei valori, ma anche la presa di coscienza del gruppo di anti-eroi dell'inutilità delle proprie vite, votate ad una ricerca di libertà sfociata nella cattiveria. E sempre da qui, la riscoperta dell'amicizia come unico valore salvifico; ma in un mondo che ha rinunciato ad ogni tipo di valore, anche l'amicizia non può che condurre ad una catarsi violenta: il secondo massacro, questa volta letale, è la fine compiuta di quel mondo che l'autore tanto ama, la brutalizzazione di quei personaggi che fino a poco fa erano pronti a compiere un gesto eroico, un'ultima camminata verso l'impresa che diviene marcia cosciente verso il patibolo.
Massacro alla fine del quale non resta che un'amara presa di coscienza di chi quella brutalizzazione l'ha inseguita per tutto il film, per chi ha tradito i propri amici e che ora si ritrova a fare i conti con la propria coscienza, con il proprio senso dell'onore spezzato, fatto a pezzi in un bagno di sangue.
L'elegia del genere è così spettacolare e amarissima, struggente e per questo bellissima. Peckinpah trova non solo una forma perfetta per il proprio pessimismo, ma anche la giusta carica di commozione verso quei personaggi e quei temi tanto amati e mai così rimpianti.
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