The man who killed Don Quixote
di Terry Gilliam.
con: Adam Driver, Jonathan Pryce, Stellan Skarsgaard, Olga Kurylenko, Joanna Ribeiro, Jordi Mollà, Oscar Jaenada, Jason Watkins.
Fantastico
Inghilterra, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo 2018
Se c'è una morale insita in quell'enorme esperienza di vita che per Gilliam ha il nome di " The man who killed Don Quixote", questa non può che essere la classica "chi la dura la vince". La perseveranza, ai limiti della follia, di un filmmaker che crede nella sua opera al punto di rincorrerla per oltre un quarto di secolo ha portato, finalmente, alla sua realizzazione. Non che i problemi siano mancati anche dopo la fine delle riprese: la disputa per i diritti con la produzione e persino un ictus che ha colpito l'autore sono i punti esclamativi di un discorso che ha visto false partenze, ritardi, resurrezioni castrate e calamità naturali distruggere intere location, come testimoniato nel bel "Lost in La Mancha". Ora, a Settembre 2018, l'attesa è finita e il Don Chisciotte di Gilliam approda finalmente sul Grande Schermo (almeno in parte d'Europa) rivelandosi come una pellicola riuscita, ma dall'impianto troppo poco visionario per essere davvero memorabile.
Il "Don Chisciotte" di Gilliam è, in buona sostanza, un film sulla vecchiaia, sullo smarrimento di sè stessi causato dal tempo e sulla riscoperta di quella fantasia, intesa come estro artistico, fin troppo sopita. Un film che gioca sulla dualità tra personaggio e autore, tra creazione e creatore. Toby (Adam Driver) è l'ombra dell'entusiasta autore che fu dieci anni prima, quando realizzò il film che dà il titolo al film, progetto di laurea in cui riversa tutta la sua carica di artista; ora non gli resta che dirigere svogliatamente e distrattamente uno spot pubblicitario che ne rievoca l'ambientazione e i personaggi; mentre Javier (Pryce) è un ex calzolaio che, toccato dalla magia del cinema, non ha più voluto uscire dal personaggio di Chisciotte.
Javier è Chisciotte così come Chisciotte è, paradosso, Chisciotte: laddove il personaggio di Cervantes era un nobile immerso sin sopra i capelli in una fantasia cavalleresca, quello di Gilliam è un uomo qualunque che non ha mai voluto affrancarsi da quella magnifica fantasia, che si è perso nella persona che interpretava, divenendo incarnazione di quella stessa forza della fantasia che Gilliam narra sin dai tempi de "I Banditi del Tempo".
Nel confronto con il vecchio "pazzo", Toby è chiamato a riscoprire quella follia interiore che tanto gli aveva donato e che ora si scontra con l'aridità di un mondo dove la fantasia viene sbeffeggiata, dileggiata come passatempo da salotto per ricchi e volgari imprenditori dediti alla violenza gratuita.
Una fantasia che muore sotto i colpi del vizio, ma che per fortuna, una volta riscoperta, viene passata ad un nuovo portatore, un nuovo visionario pronto a perdervisi per amore di se stesso e degli altri.
E se la storia altro non è che un elogio della visionarietà, il film non è visionario se non a sparuti tratti.
Bisogna essere chiari: quello giunto nelle sale non è che un frammento della visione originaria che Gilliam aveva per il suo "Quixote", un pezzetto di un tutto che si è perso per strada (un pò come accaduto a "The Imaginarium of Doctor Parnassus") ridotto all'essenza dell'osso dai 25 anni di ritardi, false partenze, defezioni e morti. Basta confrontare il film finito con quanto si può desumere da "Lost in LaMancha" per capire quanto sia andato perduto: intere location, intere sequenze, interi pezzi di storia, significanti così come significati. In buona sostanza, l'intera fantasmagoria che doveva accompagnare Toby, Javier, Gilliam e lo spettatore nel viaggio per le lande spagnole.
Non c'è una vera vena di follia nel racconto che non sia saldamente ancorata alla realtà; niente più voli onirici, cavalieri della fobia, trip allucinati o viaggi nel tempo della pazzia: in "The Man who killed Don Quixote" tutto è castrato da un budget inadeguato alla visione, che la porta ad incagliarsi in immagini troppo naturalistiche, anche quando dovrebbero essere fantasmagoriche. Basta confrontare le peregrinazioni dei due protagonisti con quelle di un altro celebre duo del cinema di Gilliam, quello de "Le Avventure del Barone di Munchausen", per rendersi conto della pochezza visiva cui il grande autore è costretto. Ogni ambizione è ridotta e l'elogio della visione diviene visione blanda, a tratti goffa, stretta com'è nelle maglie di una produzione sin troppo piccola, che finisce per affossare la vena creativa.
Valeva dunque la pena lasciare questa visione nella mente del suo autore? Probabile. A conti fatti, "The Man who Killed Don Quixote", benchè riuscito, non è che l'ombra del cinema di Gilliam che fu.
Eppure non si può che restare affascinati dinanzi alla caparbietà di un autore la cui opera è sopravvissuta, nel bene e nel male, a quasi 30 anni di disordini produttivi e umani.
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