di Keiichi Sato
Animazione/Fantastico/Azione
Giappone (2014)
In Italia, tra tutti i sottogeneri di manga presenti sul mercato internazionale, è senza dubbio lo shonen, il fumetto per giovani adolescenti, a ricoprire, anche da un punto di vista storico, la fetta maggiore del mercato; sono ormai tre le generazioni cresciute sfogliando gli albi di opere quali "Hokuto no Ken" e "Dragon Ball" e guardando le realtive e ben più famose trasposizioni animate; normale è, dunque, l'immediata distribuzione nelle sale italiane del primo lungometraggio di uno degli shonen più longevi di sempre in patria e più apprezzati in Italia: "Saint Seiya", qui noto come "I Cavalieri dello Zodiaco".
Ambientato in un mondo nel quale le divinità classiche sono entità viventi, "Saint Seiya" narrava le gesta del giovane Seiya, un "Saint", ossia un sacro guerriero consacrato alla dea Athena e bardato nell'armatura della costellazione di Pegasus, perennemente in lotta con altri cavalieri, siano essi Saint devoti al dispotico Gran Sacerdote che guerrieri protettori di diverse divinatà, come gli Specter di Hades, protagonisti dello story arc più riuscito.
Con il suo mix di furiosi e fantasiosi combattimenti corpo a corpo e stralunati riferimenti alla mitologia greca, il manga di "Saint Seiya" si guadagnò una nicchia nel cuore degli adolescenti nipponici sin dalla sua prima pubblicazione, nel 1985; il vero successo arrivò tuttavia un anno dopo, con la splendida trasposizione animata a cura della Toei Animation, dove il character design piatto ed anonimo di Masami Kurumada veniva ridefinito dal compianto Shingo Araki, che con le sue linee morbide per i volti ed una cura maniacale per i dettagli delle armature riuscì a creare un piccolo gioiello grafico, di gran lunga superiore al soggetto di partenza. Vero e proprio motivo di culto per gli appassionati fu poi la linea di giocattoli che riproduceva i personaggi della serie, i cui pezzi sono tutt'oggi ricercati dai collezionisti di tutto il mondo a prezzi astronomici e che hanno garantito al manga di Kurumada una fama duratura.
Ma la fama e il successo dell'amena opera di Kurumada sono davvero meritati? Non proprio.
Nella sua trentennale vita editoriale, il manga (e con esso le relative trasposizioni anime) non è mai riuscito ad essere originale; da una parte, la struttura "a incontri" della serie, nella quale la storia è un mero pretesto, non riesce mai ad avvincere a causa dell'estrema ripetitività, con i cinque Saint protagonisti perennemente alle prese con un nemico all'apparenza invincibile, ma prontamente sopraffatto dalla loro forza fisica o ideologica; l'assenza di una vera e propria sceneggiatura a fare da collante tra i vari scontri porta subito la narrazione ad appiattirsi su una serie di clichè riciclati all'infinito: il protagonista Seiya riesce sempre a cavarsela grazie al sacrificio degli amici, il nobile Shiryu del Dragone combatte ogni battaglia sino alla morte, salvo poi ritornare in vita dopo qualche capitolo, il carismatico Hyoga del Cigno si fa sempre sopraffare dai sentimenti, mentre l'efebico e dolce Shun di Andromenda viene sempre sconfitto e salvato dal fratello Ikki. Struttura più simile a quella di un videogame che alla narrazione canonica, che si rinnova solo in occasione dell'ultimo story arc, la Guerra Sacra contro le truppe di Hades, dove, messo da parte il classico canovaccio che vede i Saint di bronzo correre in aiuto della loro dea, Kurumada intesseva una vera e propria trama che, pur foriera di buchi e contraddizioni, riusciva per lo meno a svecchiare la serie. E non è un caso che la migliore incarnazione di "Saint Seiya", il più recente "Lost Canvas" di Shiori Teshirogi, si rifaccia proprio a quest'ultima serie, rielaborandola ulteriormente in una storia vera e propria; opera nella quale, guarda caso, Kurumada non ha preso parte, a dimostrazione di come sia stato l'autore stesso la causa della cattiva riuscita del manga.
Il successo planetario di "Saint Seiya" va così ricercato non tanto nella storia e non solo nello splendido lavoro di design di Araki, quanto nella capacità dello stesso Kurumada di creare personaggi carismatici, in grado di bucare lo schermo televisivo (e le pagine del manga) per imporsi come vere e proprie icone dello shonen; tolti i cinque, pallidi, protagonisti, le vere star erano i nobili Gold Saint, anch'essi consacrati ad Athena e portatori delle vestigia dei dodici segni zodiacali; introdotti inizialmente come villain del primo story arc, i Gold diventano co-protagonisti della serie di Hades e protagonisti assoluti in "Lost Canvas", dove rubano la scena a tutto e a tutti grazie allo splendido design delle loro armature e alla loro caratterizzazione, in quest'ultima serie più sfaccettata e credibile.
L'aficionados non potrà che storcere il naso di fronte alla nuova caratterizzazione dei Gold Saint: il perfido e truce Deathmask di Cancer viene trasformato da folle omicida a buffone canterino, inscenando un improbabile numero musicale che sembra uscito dalle peggiori visioni di un Tim Burton privo di ispirazione; Camus di Aquarius regredisce a puro antagonista, Saga di Gemini a vero e proprio boss finale, mentre Shaka di Virgo e Milo di Scorpio fanno giusto una comparsata, quest'ultimo in un'inedita versione femminile, la quale, però, privata di ogni approfondimento o enfasi drammatica perde di qualsiasi mordente.
Ancora peggio, i cinque protagonisti bronze saint, già blandi in origine, qui perdono ogni forma di caratterizzazione e background, divenendo mere figurine da far scontrare nel corso della pellicola con il nemico di turno.
Non aiuta di certo l'esigua durata: l'incontro con i dodici Gold Saint viene condensato in appena 93 minuti, durante i quali non solo vengono introdotti blandamente storia e personaggi, ma anche gli scontri vengono ridotti a mere sequenze d'azione; privati di ogni drammaticità e violenza, i duelli divengono semplici sequenze nelle quali i guerrieri di turno lottano lanciandosi colpi fatti luce, senza fisicità, senza mai una vera forma di spettacolarità.
Il character design, rifatto da zero, non è degno dello splendido lavoro di Araki, ma neanche del più piatto design originale di Kurumada: le armature dei Bronze Saint hanno un design futuristico, con tanto di luci al neon a là Syd Mead che mal si concilia con l'ambientazione mitologica; mentre quelle dei Gold Saint sono pacchiane e tronfie, talmente barocche da sembrare abiti di carnevale piuttosto che vesti da guerra; persino il design archittetonico del Grande Tempio delude: troppo forte è l'influenza del lavoro svolto da Yoshitaka Amano nella serie videoludica di "Final Fantasy", tant'è che a tratti si ha l'impressione che gli autori lo abbiano deliberatamente copiato; e quando nell'ultima sequenza Saga prende le forme di un giantesco mostro antropomorfo, la sensazione di trovarsi innanzi ad un videogame piuttosto che ad un film è immensa.
Questo perchè sinanche la computer graphic è sciatta: lontana anni luce dalla perfezione del rendering e delle animazioni di "Capitan Harlock" (2013) ed "Appleseed Alpha" (2014), quella de "La Leggenda del Grande Tempio" è una grafica volutamente cartoonesca, che riduce i personaggi a pupazzetti animati e rifugge da ogni forma di verosomiglianza, sopratutto nelle espressioni dei volti, creando un mix indigesto tra il naif dei personaggi e il kitsch degli ambienti.
Tronfio, infantile e poco ispirato, il primo lungometraggio dedicato ai Saint di Kurumada è un filmino pensato unicamente per un pubblico di bambini; gli adulti nostalgici della loro infanzia o i fans dell'opera originale ben farebbero, invece, a risparmiare tempo e denaro e a riguardarsi i vecchi episodi dell'anime.
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