sabato 1 agosto 2015

King of New York

di Abel Ferrara.

con: Christopher Walken, David Caruso, Victor Argo, Laurence Fishburne, Wesley Snipes, Joey Chin, Giancarlo Esposito, Paul Calderon, Steve Buscemi.

Usa, Italia, Inghilterra (1990)

















Una città marcisce sullo sfondo di una guerra sempre più aspra e priva di senso. La New York tanta amata dal cinema americano si risveglia infestata da mostri, bestie violente e cannibali pronte a tutto pur di assaggiare un pezzo della Grande Mela. E Abel Ferrara è lì a testimoniarlo, in quell'ultimo anno del decennio che lo ha portato alla ribalta nel mondo del cinema indipendente americano; con un cast d'eccezione e l'aiuto del fido scrittore Nicolas St.John, crea, con "King of New York", il suo film più controverso e violento, un'opera spettrale e priva di compromessi, foriera di polemiche talvolta giustificate, ma al contempo estremamente riuscita ed affascinante.


"King of New York" è un ritratto di personaggi, piuttosto che di azioni, nonostante la presenza di veloci e sapienti sequenze action; è il ritratto di Frank White, gangster di lungo corso appena uscito di galera e pronto a rimettersi in gioco; ed è il ritratto dei personaggi che gli gravitano attorno: gangster di mezza tacca sboccati e violenti come il Jump di Laurence Fishburne, grossi boss menefreghisti e sopratutto poliziotti disillusi, incarnati dal trio Bishop-Flanigan-Gilley, violenti e cinici come i criminali cui danno la caccia.
Ma il centro di interesse rimane lui, Frank: un mafioso distrutto dalla vita e ridotto ad un morto vivente, un teschio bianco, inespressivo e stanco che Chritopher Walken incarna perfettamente con il suo sguardo spiritato e la sua parlantina spezzata. Frank vive in un mondo ostile, violento, perduto nei meandri della cocaina, l'oggetto cardine dell'edonismo degli anni '80 divenuta valuta di scambio, mezzo per ottenere o per fare del bene.
Frank non è un "cattivo" nel senso ortodosso del termine: non vuole arricchirsi a danno degli altri, né cerca di distruggere le bande avversarie per il solo gusto di farlo; sembra avere un piano, anzi un vero e proprio sogno: far rifiorire quella città che tanto ama, quella New York pre-Giuliani ancora infestata dalla sporcizia e dalla microcriminalità. Ed è qui che l'opera di Ferrara mostra in parte il fianco.


Perchè se per tutto il film è facile comprendere le ragioni del "mostro" che cerca nonostante tutto di creare qualcosa di buono, nel finale quell'incredibile monologo di Walken sull'innocenza del suo personaggio distrugge in parte quanto di buono fatto in precedenza. Non si possono giustificare le azioni di un criminale, di un uomo che vende morte per le strade addossando bonariamente la colpa del successo dei narcotici alla domanda del pubblico; non si può calare in una luce benigna un assassino, nè idealizzarlo a "uomo d'affari" quando di fronte ha un poliziotto che gli chiede di rendere conto della sua vita; sopratutto se, al di là della comune morale, si tiene conto di come il mondo in cui esso si muove è stato descritto in precedenza.
Detto questo, l'impianto drammaturgico e filmico qui imbastito da Ferrara è ai limiti dell'impeccabile.


Nel mondo di "King of New York" non esiste una dicotomia tra bianco e nero; Frank ("White"), idealmente in cerca di redenzione, non vuole in realtà sfuggire a quel sottobosco criminale che lo ha portato a vivere per metà della sua vita dietro le sbarre, ed anzi cerca di sfruttarlo per i propri fini. Mentre i poliziotti, tutori dell'ordine convinti delle loro azioni, si rivelano violenti ed oltranzisti come il loro antagonista.
Nella fluidità dei ruoli, ogni certezza per lo spettatore viene meno, ogni appiglio verso le convenzioni viene spazzato via: restano solo i personaggi, i loro ideali e le loro azioni, nessuno giudizio completo può essere dato, si può solo assistere alle loro vicende, cercare di comprenderne le ragioni, andare oltre le pure apparenze, ma mai parteggiare per loro. Ecco perchè quel finale con la giustificazione delle azioni di Frank è spiazzante e fuori luogo: un'unica presa di posizione verso un protagonista altrimenti caratterizzato tra ombra e luce.


La città che Ferrara ricostruisce è cupa e marcia come i personaggi che la popolano; la bellissima fotografia di Bojan Bazzelli illumina ambienti perennemente bui con luci soffuse e monocromie, restituendo un'atmosfera torbida, quasi da horror gotico, nella quale Walken si aggira con la sua figura da Nosferatu. Una città perennemente al buio, dove la violenza è la padrona.
Violenza irrompe senza preavviso: Ferrara rinuncia alla canonica costruzione per climax della vicenda e spacca la narrazione in blocchi, lasciando che lo spettatore si confronti con le scelte dei personaggi e le relative conseguenze su di un piano di messa in scena, così come è chiamato a confrontarsi con i loro caratteri su quello della scrittura; ci si ritrova invischiati in morti, tradimenti e massacri senza preavviso: tutti i personaggi divengono, un pò alla volta, carne da macello in un balletto di morte dal quale nessuno si salva, una mattanza che raggiunge l'apice nella magnifica sequenza dell'inseguimento tra David Caruso e Laurence Fishburne, vero e proprio tripudio di nichilismo violento.


"King of New York" è il più duro dei film di Ferrara, anche più del capolavoro "Il Cattivo Tenente" (1992): un dramma criminale che non concede sconti allo spettatore, nel quale il suo autore riversa tutta la disillusione verso un mondo condannato eppure imperscrutabile.

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