lunedì 8 febbraio 2016

The Hateful Eight

di Quentin Tarantino.

con: Samuel L.Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Bruce Dern, Tim Roth, Walton Goggins, Demiàn Bichir, Michael Madsen, James Parks, Channing Tatum, Dana Gourrier, Zoe Bell.

Usa 2015
















---CONTIENE SPOILERS---


Non è stato semplice portare "The Hateful Eight" al cinema. Non dopo quell'imperdonabile quanto squallido leak che nel gennaio 2014 rese disponibile la prima versione dello script online a banchi di debosciati che si catapultarono a leggere pagine e pagine virtuali pur di "vedere" in anteprima la nuova opera del regista più influente delle ultime due decadi. Un oltraggio, per Tarantino, non da poco, proprio per lui che, perseguendo una politica autoriale caparbia, fuori tempo, ma tutto sommato condivisibile, depreca l'uso e l'abuso della tecnologia digitale in ogni sua forma. Eppure proprio quello sciagurato incidente (a cui è seguito un altro leak altrettanto ignobile, quello dell'intera pellicola, piratata all'indomani delle anteprime) lo ha portato a prendere una decisione vincente per il suo film: girarlo completamente in 70mm e con formato ultrapanoramico, in rapporto 2,76:1. tecnica rarissima nel mondo della celluloide e rimasta inutilizzata da quasi cinquant'anni. Il tutto per creare su grande schermo uno spettacolo che fosse unico, impossibile da riprodurre in modo altrettanto fulgido su schermi televisivi o portatili, come già avevano fatto David Lean e Stanley Kubrick con il mitico "Super Panavision" in "Lawrence D'Arabia" (1964) e "2001: Odissea nello Spazio" (1968) o sopratutto il quartetto John Ford/Henry Hathaway/Robert Thorpe/George Marshall per l'imponente "La Conquista del West" (1962), girato su pellicola 70mm e con rapporto d'aspetto "unico" pari a 2,89:1.
Rimandi "classici" che non si fermano alla sola estetica, quanto anche ad un recupero totale della classicità nella costruzione della narrazione: per la prima volta Tarantino scrive una storia in modo da non sovvertire (quasi) nessun canone della narrazione filmica, per creare quella che è a conti fatti la sua opera meno incisiva, ma anche più estrema.




Wyoming, estremo nord degli Stati Uniti. Poco tempo dopo la morte di Abramo Lincoln, un pugno di uomini si ritrova assediato da una tempesta di neve all'interno di un remoto emporio sulla via della fantomatica cittadina di Red Rock. Il cacciatore di taglie John Ruth, detto "il boia" (Kurt Russell) scorta una preda da 10.000$, la ruvida Daisy Dormegue (Jennifer Jason Leigh); l'ex ufficiale dell'esercito nordista Marquis Warren (Samuel L.Jackson), anch'egli bounty killer e nero, è sulla via di casa; Chris Mannix (Walton Goggins), ex soldato confederato, si appresta a divenire nuovo sceriffo di Red Rock; l'inglese Osvaldo Mobray (Tim Roth) è invece il boia della città, anch'egli sorpreso dalla neve; il taciturno Joe Gage (Michael Madsen) è un mandriano in visita alla madre per le festività natalizie; l'ex generale sudista Sandy Smithers (Bruce Dern) è in cerca della tomba del figlio; il messicano Bob (Damièn Bichir) sostituisce la padrona di casa Minnie (Dana Gourrirer). Ma appena giunti al ritrovo comune, i due cacciatori di taglie cominciano a sospettare una trappola.


Sarebbe facile iscrivere "The Hateful Eight" nell'ordinaria filmografia di Tarantino, ossia in quella "pulp" che ne contraddistingueva lo stile negli anni '90, non fosse altro per la carica di gore che, da metà film in poi, illumina la scena. Perchè in fondo, questo ottavo (ma in realtà nono se si conta come dittico "Kill Bill") film è una ripresa di alcuni dei topoi del primo Tarantino: gruppo di gentaglia in un interno dal quale nessuno uscirà vivo. Dove però l'unità di tempo e spazio viene portato all'estremo: non esiste un mondo fisico al di là della montagna che circonda l'emporio di Minnie, non esiste un tempo "altro" che si faccia strada nei flashback che non sia confinato su quella cima. La visione si ferma a quegli spazi e a quelle 24 ore di fuoco. La Guerra di Secessione viene solo evocata, lo scontro tra Warren ed il figlio di Smithers fa una comparsa veloce, impressa in immagini rapide e scioccanti, unico vero sguardo ad un "tempo" non compreso in quello del racconto.
Tempo di racconto che si svolge pressocchè in diretta, percepibile ancora meglio nella versione per i cinema con proiettore a 70mm, dove lo stacco tra il terzo ed il quarto capitolo viene "colmato" con un intervallo di 15 minuti utile a far combaciare il tempo della narrazione con quello della storia.


Era facile creare immagini spettacolari con il formato UltraPanavision 70 girando in esterni: gli immensi spazi del Colorado, "body double" dello Wyoming, si prestano con facilità a creare veri e propri dipinti di una natura integerrima che schiaccia l'uomo, con le nevi che incorniciano corpi ed oggetti per dare vita a veri e propri quadri in movimento. Ma la scelta di girare il tutto come un kolossal d'antan, in un formato ancora più panoramico di quello usato da Anderson in "The Master" (2012) per distorcere la percezione di personaggi e spettatori, si comprende appieno solo quando si entra negli interni, in quell'emporio che diviene vero e proprio palcoscenico. Il grande formato permette di centuplicare lo spazio dell'inquadratura trasformando le quattro mura e i suppellettili nei veri "grandi spazi" dell'America. Ogni personaggio viene così isolato all'interno di un riquadro neutro, sottolineandone l'estraneità versi gli altri per accentuare la paranoia che piano piano si fa strada nelle loro menti e, di riflesso, in quella dello spettatore.
Le panoramiche divengono così sguardo di un filmaker che si fa anch'egli spettatore di un'umanità che, in alcuni dei suoi archetipi, è chiamata a recitare su di un palco, per filmare in diretta azioni e reazioni senza ricorrere a stacchi. Sarebbe stato impossibile ricreare altrimenti con la stessa definizione la splendida inquadratura in cui Mannix reagisce agli insulti vomitati in faccia al commilitone Smithers dall'ex avversario Warren.
Una forma filmica nuova, quella di Tarantino, che si presta in realtà alla più classica forma di messa in scena: la ricostruzione teatrale, ora totale e definitiva poiche ricreata anche nell'estetica, che negli interni viene quasi purgata dai primi piani per trasformare i personaggi in vere e proprie colonne semoventi.
Ma "The Hateful Eight" non è solo un'imponente esercizio di stile, quanto il terzo capitolo della personale trilogia sul razzismo inaugurata con "Bastardi senza Gloria" (2009) e proseguita con "Django Unchained" (2012).


La Guerra Civile Americana si è conclusa. Il "Presidente del Popolo" Lincoln è morto ammazzato. Sono passati quasi 20 anni da quando i cacciatori di taglie Django e King Schulz massacravano i loro doppi, esponenti di quell'America ottusa e intollerante dello schiavismo. I cacciatori di taglie di "The Hateful Eight" John Ruth e Marquis Warren sono l'opposto dei loro antesignani: il primo è un rude e violento menefreghista, non un razzista ma di certo neanche un idealista; il secondo è un nero il cui odio per i bianchi e la cui cattiveria è stata acuita dalla guerra. I due si muovono in un mondo appena nato dalle macerie della vecchia società schiavista, dove l'integrazione non esiste ancora del tutto e il fantasma della segregazione razziale è pronto a ricomparire ad ogni istante, con la parola "nigger" che viene sovente sputata in faccia a Warren da chiunque conversi con lui. Lo stesso titolo "Hatful Eight" mal si adatta ad essere tradotto come "I Rancorosi Otto" se si conta come gli attori in scena siano di fatto 10, in un rimando ai "Dieci Piccoli Indiani" di Agatha Chrstie, essendo megli adattabile come "Il Picco dell'Odio", ossia il luogo in cui l'odio strisciante prende forma.
E' un'America ancora divisa tra nord e sud, quella del film, riproposti nel proscenio che diviene zona di confine per separare i nemici Smithers e Warren, ove la divisione viene ricreata per sopire antichi rancori. E dove tutti sono potenzialmente degli assassini: la paranoia del male annidato tra le pieghe dalla società, nel non-visto, si fa strada subito; tutti dubitano di tutti, non è dato sapere chi sarà il "cattivo" o se sia solo, si sa con certezza solo che c'è qualcosa di sbagliato e che la violenza è pronta a deflagrare.
Il paradosso si ha quando il nero Warren e l'ex confederata Mannix sono chiamati a collaborare. Il mistero dell'assassino che si apre nel quarto capitolo trasforma il bounty killer in un novello Hercule Poirot e per puro caso il suo ipotetico rivale in un aiutante. Il tutto sino ad un finale dove proprio i due più improbabili ed infidi in un cast di personaggi deprecabili divengono l'unica voce della giustizia, chiamati a collaborare dalle circostanze.
Circostanze che portano ad appianare le divergenze in modo naturale, a collaborare per la propria sopravvivenza al punto che il colore della pelle e i rancori del passato spariscono nel lampo del colpo di una pistola: non esistono più divisioni, non più padroni né schiavi, solo due uomini uniti dal caso per portare una forma di retribuzione in una società deviata da un turbine di violenza. Sino all'epilogo, dove il sogno di Lincoln prende la forma di una lettera. Vera? Artefatta? Non conta: l'importante è il superamento istantaneo e naturale di ogni forma di segregazione.




Il west di Tarantino diviene qui fucina degli orrori in piena regola: un mondo brutale dove non esistono "buoni" ma solo differenti gradi di cattiveria. L'unica nota solare viene data dal flashback, mondo ideale dove bianchi e neri coesistono in pace sotto lo stesso tetto. Mondo quasi immaginario, spazzato via dalla brutalità dei visitatori, che massacrano ogni singolo personaggio in una mattanza destabilizzante: la realtà entra di forza nel santuario ricalibrandolo come casa degli orrori.
Abbandonati i riferimenti leoniani (che non tornano neanche nello score di Ennio Morricone, più vicino alle sonorità argenitiane de "L'Uccello dalle Piume di Cristallo" e sopratutto "4 Mosche di Velluto Grigio"), la visione si rifà al cinema di Sergio Corbucci de "Il Grande Silenzio" (1968) e a due cineasti "anomali" che mai prima d'ora erano comparsi tra le fotni di ispirazione tarantiniane: Sam Raimi e John Carpenter. Dal fulminante esordio del primo torna il tema della casa sperduta che si fa parco giochi infernale e la sequenza del "male" che emerge dalla cantina, mentre dal secondo torna l'ambientazione, con la tormenta che blocca il gruppo di personaggi in un interno "infestato" da un nemico invisibile che risveglia la paranoia dei personaggi, come ne "La Cosa" (1982), citata esplicitamente nella sequenza dei picchetti che congiungono l'emporio con la latrina.
Nell'estetica, "The Eightful Eight" è più un horror che un western: quando la violenza fa capolino, distrugge i personaggi, i cui corpi vengono fatti a pezzi, il sangue spruzza misto a vomito e cervella proprio come nello splatter di Raimi o nella trilogia lovecraftina di Lucio Fulci, per farsi rivoltante, disgustosa, mai parossistica come in "Kill Bill- vol.I" (2003). L'iperviolenza, ora, è volta a spiazzare più che a divertire, in una deriva estrema anche sul piano grafico.


Ma "The Hateful Eight" è anche il primo film di Tarantino dove tutti i personaggi sono, in un modo o nell'altro, dei "cattivi": non esiste simpatia verso John Ruth o il generale Smithers, non esistono personaggi motivati da buone intenzioni e anche quelli apparentemente più simpatetici si scopriranno a lungo andare come degli "infami".
Dal passato torna il tema dell'identità manipolata: così come la Shoshanna e il gruppo dei "Bastardi" si fingevano tedeschi e ariani pur di raggiungere i propri scopi, Beatrix Kiddo cercava di ingannare sé stessa obliando la sua natura di killer e Mr.Orange assumeva la falsa identità di rapinatore, anche tra gli otto vi sono degli "attori", tanto che l'intero cast di personaggi può essere suddiviso in chi recita e chi no. Ruth, Warren, Mannix e Smithers portano avanti le loro identità senza celare nulla, ma di ognuno di loro scopre, prima o dopo, la natura malvagia. Ruth è un violento ed avido, infido e paranoico verso l'incasso della taglia, rude verso la sua preda, che si diverte a picchiare in un rito quasi ordinario, dove la violenza inflitta è quasi un tic. Warren, il nero, apparentemente la vittima della società intollerante, è un bugiardo che ha falsificato la lettera di Lincoln e che nasconde un passato da massacratore sadico, che si diverte a svelare a Smithers per ottenere un pretesto per ucciderlo. Questi è senz'altro il personaggio più genuino del gruppo: un ufficiale razzista che non cela mai la sua identità, né la sua smania di sottomettere il "negro". Mentre Mannix, il suo sottoposto, svela da subito il suo passato da rinnegato.


Dall'altro lato Gage, Mobray e Bob, i banditi che si fingono semplici ospiti, obliando la loro vera identità, recitando un ruolo che non gli appartiene, una farsa nella pantomima che avvia un gioco di specchi totale sul palco dell'emporio. Sotto di esso, il "fantasma" Jody (Chainning Tatum), che ai fine della recita arriva a scomparire, ad obliarsi completamente per raggiungere il proprio obiettivo.
Nel mezzo, tra i due gruppo, c'è la preda Daisy Domergue, folle, irrequieta, disillusa, una donna minuscola in mondo di uomini enormi che veste da principio i panni della vittima: sarebbe facile simpatizzare per lei, corpo alla mercè dei pugni di Ruth, bagaglio scortato a suon di sberle, volto perennemente immerso nel sangue e inciso dalle tumefazioni. Solo per scoprire come di fatto sia lei la più sadica del gruppo, una disperata in grado di manipolare tutto e tutti pur di salvarsi, un "mostro" che non guarda in faccia a nessun per la sopravvivenza, di gran lunga più inquietante del suo aguzzino, più disturbante del sadico Warren, più razzista dello zotico Mannix.


La ripresa degli stilemi narrativi classici non sempre giova. La costruzione hitchcockiana della tensione, in crescendo, e la divisione in due parti propria del new horror, una prima per costruire personaggi e situazioni cui segue una seconda in cui tutto deflagra, dona a "The Hateful Eight" un'anima "classicista" che permette di appasionarsi alle vicende, ma che non spiazza se non quando fa capolino la violenza. L'intera narrazione è adagiata sullo stilema del "whodunnit", con uno o più colpevoli da scoprire, come nei gialli della Christie, citati esplicitamente come fonte di ispirazione. E proprio come nei gialli, manca una capacità di soprendere che vada al di là del singolo colpo di scena o della violenza sparata a mille. La storia e i personaggi funzionano e la messa in scena è incredibile, ma manca il mordente delle opere più riuscite di Tarantino. Meno radicale di "Bastardi senza Gloria", meno politico di "Django Unchained", meno sperimentale sul piano narrativo rispetto ai film degli esordi, "The Hateful Eight" è un 'opera precisa, ma che resta troppo chiusa in sé, che non innova e non stupisce se non nell'estremizzazione di quanto già fatto in precedenza, ma che ha comunque il grande pregio di fare il suo sporco lavoro dannatamente bene.

2 commenti:

  1. Complimenti per la recensione. Purtroppo abitavo troppo lontano dalla più vicina sala che trasmetteva in 70mm e mi sono dovuto accontentare della versione in digitale. Bellissimo film, mi è piaciuto molto di più di Django Penso che il film sia più affine al genere giallo che al western, perlomeno mi ha dato questa impressione.il film gode di una verve comica veramente stuzzicante, sopratutto i dialoghi tra John Ruth e Daisy Domergue mi hanno fatto ridere di gusto.

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  2. Ti ringrazio.

    In effetti "The Hateful Eight" con il western (sia americano che "spaghetti") ha poco o nulla a che vedere: a livello narrativo è proprio un "giallo" all'americana, dove la suspanse viene data dal capire cosa sia successo e chi è il responsabile. Un'ibridazione inedita, ma d'altro canto Tarantino è un remixatore nato.

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