mercoledì 4 maggio 2016

Una Storia Vera

 The Straight Story

con: Richard Farnsworth, Sissy Spacek, Harry Dean Stanton, Everett McGill, Jennifer Edwards-Hughes.

Usa, Francia, Inghilterra 1999




















Il cinema di Lynch ha, fin dal suo esordio, la forma ed il ritmo del sogno; la sua visione altro non è se non la manifestazione di un inconscio personale e collettivo, luogo nel quale si dimenano i demoni ed i desideri di una nazione e di un gruppo di personaggi solo apparentemente eccentrici o sopra le righe.
Ma cosa accade quando il sogno finisce ed i personaggi si risvegliano nel mondo del quale hanno avuto sin d'ora solo una percezione distorta?
Domanda alla quale risponde "The Straight Story", l'opera più anticonvenzionale (in tutti i sensi) del grande autore. Un film che Lynch gira quasi per caso: lo script di John Roach e Mary Sweeney (già sua collaboratrice per "Twin Peaks") era stato acquistato dalla compianta Anne Bancroft, moglie di Mel Brooks, il quale a sua volta già gli affidò "The Elephant Man" (1980). Lynch vi si approccia per la curiosa storia vera alla base: nel 1993, il 73nne Alvin Straight aveva compiuto l'impensabile viaggio dall'Iowa al Wisconsin (circa 500Km) a bordo di uno scassato tagliaerbe della John Deere, per visitare il fratello Lyle. Storia lontana anni luce dalle sue tematiche e che gli permette di dar vita a quella che a sua detta è la sua opera più sperimentale. Oltre che il suo ennesimo capolavoro.




"The Stright Story" è un racconto sulla terza età; non uno spaccato o una riflessione, quanto uno sguardo, lucido e penetrante, su di una stagione della vita all'epoca troppo poco frequentata dal cinema americano.
Quello di Alvin è un cammino lineare, privo di veri ostacoli o fronzoli; un sentiero che si snoda verso un fine: la riappacificazione con il fratello in vista della fine della loro corsa esistenziale. Un cammino che ha il ritmo lento e meditabondo dell'anzianità: false partenze e lungaggini permettono di dipingere  dovere la vita monotona del protagonista, con le sue giornate interminabili, i piccoli drammi e i piaceri convenzionali. Il viaggio in sé perdura per l'arco di due stagioni, ossia dall'estate all'autunno (ricreate girando le scene in ordine cronologico), prima dell'arrivo dell'inverno, del passaggio verso quelle stelle che Alvin mira con curiosità, quell'infinito che lo attende.




Poggiandosi sull'esperienza del compianto Richard Farnsworth, Lynch trova in Alvin la perfetta personificazione della saggezza della terza età; un volto scavato, irsuto, su cui spuntano due profondissimi occhi azzurri che scrutano la strada ancora da percorrere. Una strada che lo porta a confrontarsi con sé stesso, i propri errori, i rimpianti e le poche certezze. Ad ogni tappa, il grande vecchio incontra dei personaggi vividi, talvolta un pò strambi, ma sempre, genuinamente umani.
L'America che Lynch qui ritrae è la più viva e pulsante; il marciume che vi si annida sotto è scacciato dalla forte luce diurna che questa volta ammanta ogni scena. L'orrore non ha spazio sotto il cielo di Alvin e quando prova a manifestarsi anche indirettamente (la tragedia della ragazza in fuga, la rivalità tra i buffi gemelli meccanici, la strana storia dei cervi, unica concessione all'assurdo, che qui ha la forma di un sogno ad occhi aperti), viene puntualmente scacciata dalle sue parole, foriere di quella saggezza che solo una vita lunga può fornire e dinanzi alla quale l'autore prova una sentita reverenza.




Viaggio che cambia lo stesso Alvin; il percorso diviene così una catarsi verso quel passato che sembra tormentarlo; il perdono verso il fratello, tenuto a distanza per più di dieci anni, sorge nel momento della notizia del suo infarto e si solidifica pian piano con i kilometri percorsi. Al contempo, il rimpianto per gli orrori della II Guerra Mondiale che tanto dolore gli hanno causato trovano una catarsi nel racconto con un altro reduce. Una storia, questa, foriera di vero orrore, che Lynch tratteggia in modo sensibile, affidandosi unicamente ai due attori, maneggiando la materia di fondo con una cautela sorprendendte, riuscendo altresì a raggiungere le corde emotive più intime.
Il dramma di Alvin, di fatto, resta sempre celato sotto il suo sguardo profondo; il suo dolore non prende mai una forma davvero catartica o definitiva, come invece avveniva con il John Merrick di "The Elephant Man". Un dolore sopito, inconscio, che sfuma poco a poco sino a quella riappacificazione totale, commovente e necessaria: tra le macerie di una vita fatta a pezzi, Lyle, caduto in disgrazia, può riavvicinarsi al fratello in uno stato di comunione silenziosa e (forse proprio per questo) totale,




Una riappacificazione che Lynch narra in modo diretto, lineare, "straight" proprio come il nome del suo protagonista: non ci sono crescendo, simbolismi, né enfasi sulle varie catarsi. Il ritmo lento smonta ogni forma di sensazionalismo o carica drammaturgica eccessiva per giungere alla più viva e genuina forma narrativa, quasi come "l'anti-dramma" di bressoniana memoria. La ricerca della redenzione ed il perdono divengono così stati automatici della vita, tappe obbligatorie e naturali per quella terza età ritratta. L'ultima stazione prima del viaggio definitivo. E per questo, una volta raggiunta, ineluttabilmente commovente.


EXTRA:



Interprete di circa 89 film, stuntman con 78 partecipazioni a pellicole del calibro di "Butch Cassidy" (1969), "Spartacus" (1960), "I Dieci Comandamenti" (1956) e "1975: Occhi Bianchi sul Pianeta Terra" (1975), Richard Farsworth è stato un caratterista ed un mestierante di grandissimo calibro nell'industria hollywoodiana. Per il suo unico ruolo da protagonista in "The Straight Story" ricevette persino una (meritatissima) candidatura all'Oscar, che lo rese il più anziano attore in corsa nella storia dell'Accademy. Gravemente malato afflitto da un tumore osseo già durante le riprese del film, Farnsworth decise di suicidarsi subito dopo la fine della lavorazione principale, lasciandoci a 80 anni.



"The Straight Story" diviene così anche il suo ideale testamento spirituale. Il quale segna, al contempo anche la fine di altre due carriere, quella di Jack Nance e Everett McGill.




Anch'egli caratterista di lusso ed interprete di quasi tutte le opere di Lynch sino a "Strade Perdute" Nance si spense nel 1996, a soli 53, nonostante la sua apparenza gli facesse dimostrare un'età parecchio più avanzata.





Everett McGill, invece, si è ritirato dopo aver girato il suo cameo nel film. Tra gli interpreti-feticcio di Lynch, McGill ha per lui interpretato "Dune" (1984) e "Twin Peaks". Ritiro durato sino a qualche mese fa: insieme a gran parte del vecchio cast, anche lui tornerà nel revival della serie a partire dal 2017.

Nessun commento:

Posta un commento