di Michael Moore.
Docu-Drama
Usa (2015)
C'è un apsetto importante del lavoro di Michael Moore che bisogna tenere a mente ogni qual volta si guarda uno dei suoi film: i suoi non sono documentari, non nel senso convenzionale del termine almeno.
Nel documentario, il regista di turno usa la macchina da presa per portare su schermo (documentare, appunto) una realtà verso la quale, il più delle volte, non ha un punto di vista e a prescindere dal suo contenuto; ogni giudizio, tesi e costruzione ideologico-narrativa viene meno in favore della scoperta di ciò che l'oggetto è.
Michael Moore, d'altro canto, adopera lo strumento del documentario (inteso come "ripresa di un evento reale") in modo diverso: usa interviste e ricerca audiovisiva come supporto alla tesi che, di volta in volta, vuole dimostrare. Il che non è in sé stesso un male: opere quali "Bowling for Columbine" (2002) e "Sicko" (2007), pur nel rifiuto della semplice ricostruzione fattuale, aiutano a tracciare un quadro completo e comunque veritiero della società yankee della quale Moore vuole sfatare i miti.
Ma con il suo ultimo lavoro, il filmmaker di Flint si dà la fatidica zappa sui piedi; nel contrapporre l'american way of life con quello europeo, finisce per creare della vera e propria disinformazione al fine di dimostrare come l'Europa sia un sorta di "isola felice" contrapposta a quella distopia che sono gli Usa.
Moore viaggia di paese in paese svelando gli aspetti più vividi di ogni sistema di walfare: le mense scolastiche in Francia, il sistema educativo in Finlandia, quello universitario in Slovenia, la legalizzazione delle droghe pesanti in Portogallo e così via. Di ogni società riprende solo ed esclusivamente gli aspetti utili al suo discorso, tralasciando il resto. Il che diviene particolarmente fastidioso nell'episodio ambientato in Italia, che neanche a farlo apposta apre il film.
Tralasciando la visione stereotipata del Bel Paese (donne bellissime, uomini aitanti, sorrisi, abbracci e musica classica), a colpire è il ritratto che ne esce: un luogo dove tutti i lavoratori hanno diritto alle ferie pagate e alla tredicesima. Non viene mai citato il fatto che questi diritti appartengono oramai a minuscole frange della classe lavorativa; il perché è anche presto detto: vengono intervistati solo i dirigenti della Ducati e della Landini di Firenze.
Lo stesso discorso vale per le "visite" negli altri paesi: ogni aspetto viene decontestualizzato e ricontestualizzato a piacimento, distruggendo ogni vera possibilità informativa per creare un ritratto dell'Europa che sembra uscito da un film di propaganda nazista. Nazismo che guardacaso torna nelle forme del ricordo quando Moore atterra in Germania.
Oltre all'esempio italiano, è quello norvegese a far sconcerto: partendo dal presupposto che le carceri sono praticamente degli hotel di lusso per i detenuti, Moore teorizza come sia questo trattamento ad influire positivamente sul bassissimo tasso di criminalità, senza mai ipotizzare come in realtà possa essere il contrario.
Da vera e propria fantapolitica è poi l'ultima tappa del viaggio, in quell'Islanda governata quasi esclusivamente da donne e per questo vista come nazione da seguire come esempio; forse Moore non ha mai sentito parlare di Margaret Tathcer.
Spiace davvero notare come anche una personalità impegnata e per la quale è facile simpatizzare possa prendere dei granchi del genere. "Where to invade Next" è un'opera troppo schematica e manichea, troppo chiusa in sé stessa per risultare anche solo interessante; e che finisce per fuggire, letteralmente, dal reale: peccato mortale per un film a tema che vuole cercare di smuovere le coscienze.
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