di David Robert Mitchell.
con: Maika Monroe, Bailey Spry, Keri Gilchrist, Lili Sepe, Olivia Luccardi, Jake Weary.
Horror
Usa 2014
Quando l'horror di matrice indie ha poco da dire, i risultati non possono che essere ridicoli. Tanto che "It Follows" può essere considerato come il perfetto esempio di pellicola che si rifà a uno stilema codificato, cercando disperatamente di attrarre l'attenzione del pubblico (riuscendoci, tra l'altro, visto l'ottimo riscontro ottenuto), ma senza riuscire a dire nulla di originale o stimolante, anzi afflosciandosi sui peggiori clichè possibili. Perchè di sbagliato, nel secondo film di David Robert Mitchell, c'è davvero molto, a cominciare dalla premessa.
L'idea di un essere arcano che perseguita chiunque faccia sesso arriva dritto dall'horror anni '70, ma l'idea di orrore alla sua base è totalmente diversa. Laddove le maschere di Michael Myers e Jason Voorhes incarnavano (o tentavano di incarnare) la punizione verso la libertà sessuale ottenuta ad inizio decennio, la vendetta di modo di pensare arcaico che ingenerava la paura del castigo immotivato, la presenza di "It Follows" sembra uscita direttamente da uno spottone repubblicano sull'astinenza da sesso da imporre ai giovani. Non un castigo, nè la metafora di una malattia venerea, tantomeno la scoperta di orrore fisico come in "Alien" (1979) o "Shivers" (1975), questa sorta di catena di Sant'Antonio assassina serve a Mitchell (stando alle interviste rilasciate a margine della presentazione del film al Fangoria Film Festival) unicamente per innescare la storia e far proseguire gli eventi. Un pretesto che finisce per divenire maldestramente pistolotto reazionario, esplicitazione di una paura del contatto fisico priva di ogni base razionale, per questo altamente irritante.
La caratterizzazione estetica della presenza in sé è poi alquanto ridicola: un essere che si manifesta solo a chi ha "osato" congiungersi che prende le forme di personaggi random, talvolta inquietanti, talaltra francamente ridicoli, come nel caso della vecchia in camicia da notte o del temibile tizio in calzamaglia bianca.
Mitchell si rifà allo stile di molti cineasti europei per la sua messa in scena (Refn per costruzione maniacale dell'inquadratura, Haneke per il distacco chirurgico verso gli eventi) e ad alcuni colleghi americani per l'estetica (la frontalità di Wes Anderson, l'uso di musiche in synth come Adam Wingard), ma non riesce mai a creare una tensione davvero avvertibile. Troppo semplice chiudere ogni sequenza con un anticlimax salvifico, con l'intervento di un deus ex machina a risolvere la situazione o affidarsi ai sempre cari jump-scare. La tensione non raggiunge mai un vero culmine, lasciando freddi, quasi infastiditi dall'ossessione per il regista per una forma priva di qualsiasi sostanza.
Quel che è peggio, ogni singola scena gronda di riferimenti al cinema indie e alla cultura hipster: dall'uso di oggetti di scena vetusti e fuori tempo alle citazioni colte di Eliot e Dostoevskij, Mitchell urla il suo status di autore in modo ridicolo. Sopratutto quando ci si rende conto della sua incapacità di creare personaggi complessi e che si allontanino dagli stereotipi. O quando non riesce nemmeno a creare un finale che dia una chiusura effettiva alla vicenda.
Qui non concordo affatto, per me è una splendida riflessione sul cinema horror, con studiatissime concessioni ai topoi del genere ma anche qualche ribaltamento non male. In giro lo sento decantare forse anche sopra i suoi limiti, ma anche per me è uno dei migliori horror degli ultimi anni.
RispondiEliminaObiettivamente, vederci una riflessione sull' horror è difficile. Ma a ciascuno il suo.
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