mercoledì 9 novembre 2016

I 400 Colpi

Les Quatre Cents Coups

di François Truffaut.

con: Jean-Pierre Léaud, Claire Maurier, Albert Remy, Gergoe Flamant, Guy Decomble, Patrcik Auffay.

Francia 1959
















Ci sono un sacco di miti, leggende, dicerie ed esagerazioni che circondano un movimento (sempre ammesso che come tale possa essere definito) come la Nouvelle Vague francese. Il primo fra tutti, perorato sopratutto al giorno d'oggi, è la sua portata rivoluzionaria totale, la sua capacità di distruggere ogni singola convenzione preesistente per creare una forma comunicativa nuova e del tutto inedita. Il che è alquanto esagerato, anche se, lo stesso, la capacità rigeneratrice del linguaggio adoperata da autori del calibro di Jean-Luc Godard e Robert Bresson è stata ed è tutt'oggi incredibile.
Ma la Nouvelle Vague non fu, all'epoca, il fulmine a ciel sereno che in molti si immaginano. I (grandissimi) cineasti che ne mossero le fila nei primi anni di attività (principalmente dal 1959 al 1962) si rifacevano ad intuizioni e convenzioni già a loro volta sperimentate a partire dagli anni '40 da alcuni dei più grandi autori che il cinema europeo ed americano avevano conosciuto. Primo fra i quali Roberto Rossellini.




E' nella sua opera che si può avvertire una prima e più profonda frattura con tutte le principali convenzioni estetico-narrative della Settima Arte. Il "caso" è anche il suo film più famoso, quel "Roma Città Aperta" (1945) che oggi come oggi viene ricordato qui in Italia più che altro per i suoi meriti storici, piuttosto che stilistico-estetici. Nelle parole di Godard, non ci fu mai testimonianza più grande della capacità di rinnovare il mezzo filmico, e non poteva che essere così; l'avventura di Rossellini con "Roma" fu del tutto particolare: girato con pochi soldi, iniziato come una serie di cortometraggi che in corso d'opera furono fusi in un lungometraggio e, sopratutto, prodotto in condizioni di semiclandestinità durante l'occupazione nazista, lontano dai teatri di posa di Cinecittà e a zonzo per i quartieri disastrati della capitale.
La frattura fu duplice: da una parte narrativa, con la distruzione di ogni schematismo possibile ed immaginabile, dall'uso del punto di vista multiplo di più personaggi in un racconto di ensamble sino alla negazione di un racconto lineare, al quale viene preferita la frammentarietà espressiva della divisione in episodi. Dall'altra la distruzione della convenzione del cinema dei "Telefoni Bianchi", l'abbandono di storie frivole ricostruite in studio. La macchina da presa viene sguinzagliata a pedinare personaggi più reali del reale, immersi in contesti dal realismo vibrante. Niente più montaggio-assemblaggio classico delle scene, niente più impostazione teatrale nei dialoghi e nella direzione degli attori (pur se provenienti dal mondo della rivista) e al via l'uso di attori non professionisti per avvicinarsi al reale nei limiti del possibile. Il "Neorealismo", pur già anticipato da Visconti con "Ossessione" (1943) trova qui una prima forma compiuta. E l'effetto sui "giovani turchi" francesi è dirompente.




Ma rintracciare la radice della Nouvelle Vague nella sola rinascita del cinema italiano, per quanto esatto, sarebbe lo stesso riduttivo. Sono ancora altre due le influenze che ispireranno i francesi a ripensare la Settima Arte.
La prima è la passione per il cinema americano classico, comune sopratutto a Truffaut, in particolare per lo stile e le intuizioni di Nicholas Ray, Howard Hawks e sopratutto Alfred Hitchcock, i più moderni artisti dell'epoca, il cui stile ricercato ed il controllo totale nella messa in scena contribuì all'elaborazione della cosidetta "politica degli autori".
La seconda è la contrapposizione tra gli esiti artistici del cinema americano e quelli, ben più blandi, del cinema francese, ancora saldamente ancorato alla tradizione para-teatrale e lontanissimo dalle influenze più illustri. Cinema che la nuova leva di autori depreca e vitupera sulle pagine dei "Cahiers du Cinema", rivista sulle cui pagine esordiscono come scrittori Jacques Rivette, Jean-Luc Godard e lo stesso Truffaut, i quali distruggono ogni nuovo film in uscita, esaltano appassionatamente i loro idoli, andando anche oltre ed abbandonando volutamente l'obiettività giornalistica, con vivo piglio cinefilo. Le uniche eccezioni sono rappresentate da quegli artisti francesi che riuscirono ad andare oltre le convenzioni, anticipando le tendenze a venire, primi fra tutti Jean-Pierre Melville e Henri-George Clouzot, che già negli anni '40 avvicinarono la messa in scena a forme moderne e più libere. E sopratutto gli scritti di André Bazin, vero e proprio padre putativo della teoria alla base Nouvelle Vague.




Ma nonostante la comune passione cinefila, la militanza nei "Cahiers", l'opposizione al "cinema dei papà" e l'amore verso il neorealismo e il cinema americano, gli autori della Nouvelle Vague non presentano, nei fatti, tratti comuni tra loro nella loro filmografia, non nelle tematiche e neanche più di tanto nello stile. Chabrol, Truffaut, Rivette, Resnais, Bresson, Rohmer e Godard, i "padri" del movimento, hanno in comune la voglia di sperimentare (anche sul piano tecnico), una comune matrice politica assimilabile alla sinistra europea e la volontà di avvicinarsi ad una forma filmica sempre "fasulla", spesso cosciente dei propri limiti, ma quantomai vicino alla realtà, ai tempi e ai luoghi dell'epoca, quasi a volerne dare un'istantanea perenne a 24 fotogrammi al secondo. Ognuno di loro declinerà queste esigenze in modo personale e diverso dagli altri.
La Nouvelle Vague non potrebbe, di conseguenza, definirsi come un movimento artistico organizzato: non ha tematiche comuni come il Neorealismo Italiano, né un decalogo compiuto come la futura Dogma '95. E', più che altro, un insieme di giovani autori accomunati dalla volontà iconoclasta, dotati di un talento superlativo e dalla voglia spasmodica di far evolvere il mezzo filmico verso lidi in parte inediti, in modo da garantirne una specificità ancora più marcata rispetto alla matrice teatrale o letteraria e, sopratutto, da sancire la supremazia della figura del regista, visto non solo come "direttore dei lavori", ma come mente creativa in grado di dare unicità alla pellicola.




E' con la Nouvelle Vague che il regista diviene definitivamente ed incontrovertibilmente il centro nevralgico del film; quest'ultimo diviene il frutto totale della sua visione, un parto della sua mente dotato di quella unicità che solo il totale controllo da parte di un'unica mente può garantire. Il regista diviene autore ed artista, "padrone" dell'opera e non più semplice coordinatore delle istanze delle singole maestranze, le quali ora devono dipendere totalmente da lui. La coerenza di visione e la personalità dello stile (mutuate appunto da Hitchcock e Rossellini tra gli altri) divengono imperativi al punto da cambiare totalmente la visione generale non solo del ruolo del "director", ora vero e proprio "miseur en scene", ma dell'opera cinematografica in toto, che diventerà opera artistica attribuibile al suo creatore in modo diretto, mai più filtrato per il tramite di figure quali il produttore, lo sceneggiatore o la star di turno.
Ogni autore, di conseguenza, è un mondo a sé, un "movimento nel movimento" caratterizzato da temi e stili propri, che pur influenzati o ripresi dai maestri contemporanei, fa propri e declina in modo del tutto personale. E se c'è stato un cineasta che può essere visto come "l'iniziatore ufficiale "della Nouvelle Vague, questi non può che essere François Truffaut.




Un autore la cui storia personale è essa stessa perfetto paradigma della Nouvelle Vague. Truffaut nasce critico dei "Cahiers", dove conosce anche i futuri colleghi ed amici, come Rivette e sopratutto l'amato/odiato Godard. Come critico non conosce mezze misure: stronca ogni singolo film francese in uscita, esalta con un furore bellico quelli dell'amatissimo Hitchcock. La distruzione dello status quo parte dalla carta: il cinema francese è vecchio, esausto, incrostato dalla ripetizione dei cliché del passato, dimentico delle conquiste più moderne e del tutto insensibile ai cambiamenti che si sono avuti altrove, in particolare in Italia e in Svezia, con il cinema di Dreyer e Bergman; da cui la definizione di "giovani turchi" per il tono violento e pararivoluzionario con il quale lui e i suoi colleghi coetanei vergavano saggi e recensioni.
La sua penna è una spada con la quale si diverte a punzecchiare registi e produttori; in particolare, il suo disprezzo era rivolto verso il suocero, Ignace Morgenstern, produttore di film che il giovane turco definisce come "modesta spazzatura". Proprio questi continui attacchi rappresentano l'occasione per fare il grande salto da critico a regista: sfidato dallo stesso a dirigere un film che fosse migliore dei suoi, Truffaut decide di trasformare in lungometraggio un'idea per un corto che aveva avuto qualche tempo prima; una storia piccola, in parte basata su eventi autobiografici, che raccontasse le gioie e i dolori dell'essere ragazzini in un mondo di adulti e che gli permettesse di applicare le istanze che meditava e le ispirazioni ricevute dall'amico e collega André Bazin, al quale il film è dedicato: nasce così il capolavoro "I 400 Colpi", apripista ufficiale della nuova visione cinematografica francese (di concerto con l'altrettanto importante, anche se meno apprezzato dal pubblico, "Hiroshima mon Amour" di Alain Resnes, uscito anch'esso nel 1958), trionfatore alla XII edizione del festival di Cannes, pietra miliare del cinema tutto e supremo capolavoro dello stesso Truffaut, che già in questa prima prova trova un equilibrio perfetto e dimostra una mano fermissima, oltre che una passione smodata per la narrazione per immagini.




"I 400 Colpi" (il titolo si rifà ad un'espressione francese meglio traducibile come "fare il diavolo al quattro" o "combinare un gran casino") è un film sulla tarda infanzia, su quell'età pre-adolescenziale nella quale l'infante comincia a sviluppare una coscienza verso il mondo che lo circonda. Un età che Truffaut non idealizza, non concepisce come un eden fatto di bei momenti ammantati di nostalgia, ma come un momento difficile, dove l'essere umano, pur cosciente di sé, non è libero dalle costrizioni della società, affettiva e non.
Una visione, questa, totalmente a misura del suo protagonista, Antoine Doinel, del quale il punto di vista è esclusivo; personaggio basato in parte sulle esperienze di Truffaut e alcuni suoi coetanei, ma assimilato totalmente dal suo interprete, un Jean-Pierre Léud quattordicenne ed al suo esordio, che da qui diverrà uno dei volti principali della Nouvelle Vague.
Lo sguardo di Truffaut è limpido è al contempo smaccatamente a favore del suo protagonista. La sua macchina da presa si libera da ogni convenzione e segue il volto e il corpo di Doinel nei suoi peregrinaggi. La costruzione narrativa è anch'essa priva di compromessi, costruita come una serie di episodi interconnessi tra loro. Il ritratto che ne consegue è di una veridicità incredibile, eppure al contempo incommensurabilmente vivido.




Doinel è un ragazzo terribile: costantemente ripreso per i cattivi comportamenti, allergico allo studio, prova interesse solo per la letteratura o per il cinema (note biografiche dell'autore); ma è al contempo una vittima (ma mai vittimizzato nella visione di Truffaut) di un mondo insensibile, quel mondo di adulti dove le famiglie sono disastrate e lontane dal mondo dei ragazzi, così come i professori si divertono unicamente ad umiliarli. L'unico punto di riferimento effettivo resta così l'amico coetaneo René, la cui situazione familiare non è poi tanto diversa.
Una famiglia, quella di Doinel, caratterizzata da una madre dispotica ed un padre pappamolle, visto più come un compagno cresciuto che come una figura autoritaria. E' la madre a tenere le redini del nucleo familiare: perennemente arrabbiata, fedigrafa e priva di affetto vero verso il figlio, è la prima figura di "femme fatale" che il cinema di Truffaut conosce, basata anch'essa sulle reminiscenze giovanili dell'autore.




Al di là della famiglia, l'istituzione scolastica, vero e proprio "carcere" privo di sbarre nel quale gli alunni sono confinati, costretti alle umiliazioni di un maestro insensibile e compiaciuto. Oltre, la città, la Parigi bellissima eppure fredda, nel quale Antoine e René si divertono a perdersi per le lunghe strade, perennemente alla ricerca di una forma di riscatto, di emancipazione impossibile verso la dipendenza dalle istituzioni.
Quella di Antoine è una vita difficile, logora da affetti, lontana dall'inserimento nel seno di un mondo che non comprende e che non lo accoglie (si scoprirà nel finale la sua natura di "indesiderato"). Non resta dunque che la fuga forzata o il rinchiudersi in sé stessi, in un abbandono totale di quei falsi punti di riferimento, che si traduce nel rigetto delle convenzioni sociali, da cui l'etichetta di "ragazzino terribile".





Ma il ritratto di questa infanzia difficile è leggero, quasi scanzonato, seppur celante una malinconia tangibile. Lo sguardo di Truffaut si fa complice, mai giudice, persino quando Antoine viene portato nel riformatorio o quando scruta, con curiosità ed un pò di paura, l'altro sesso.
L'ultimo atto, in teoria il più drammatico, viene dipinto con sequenze brevi ed incisive: la prigionia vera, contrapposta a quella ideale di natura scolastica con la quale il film si apre, per quanto pressante, non è opprimente. La catarsi si ha non tanto nella fuga, pur essenziale, quanto nella confessione, la magnifica sequenza del colloquio con la psichiatra nella quale il protagonista, da oggetto della visione, si fa definitivamente soggetto, confessandosi quasi direttamente allo spettatore. Tanto che la riacquisita libertà successiva si fa quasi tappa obbligata: l'ennesima fuga, più disperata perché più cosciente di sé, che si conclude con il fotogramma più famoso della Storia del Cinema, quel fermo immagine che sfondando la quarta la parete fa prendere coscienza allo spettatore e all'opera stessa della comunanza di sguardi (ideali e fisici) avutasi sino a quel momento, nei 95 minuti di durata. Uno sguardo perso, quello di un giovane ormai privo di ogni riferimento, che non sa cosa farsene della libertà e per questo si volta indietro, verso quel mondo che lo rifiuta e che rifiuta, quasi in un circolo eterno.




Sguardo limpido e leggero che Truffaut cristallizza grazie ad una macchina da presa totalmente libera, con la quale segue il suo protagonista in panoramiche ampie, o vi si avvicina negli strettissimi interni. La macchina da presa si fa viva, quasi un personaggio chiamato a testimoniare gli eventi del protagonista, lontana dalle convenzioni del classicismo, della "regia invisibile" che fino ad allora imperava. Le regole, le convenzioni ed i tabù vengono abbandonati: storia e stile si intrecciano e lo spettatore diviene partecipe della narrazione grazie sopratutto all'uso delle soggettive e delle pseudosoggettive. Ponendo in primo piano lo sguardo dei personaggi, Truffaut abbatte la parete filmica ben prima di quell'ultima inquadratura, avvicina lo sguardo e le parole al suo pubblico, rafforzando ed al contempo assottigliando la finzione della messa in scena. Come nel Neorealismo di Rossellini (in particolare quello di "Germania Anno Zero", che già presentava una storia di giovani uomini con piglio verosimile), i personaggi non sono mai stati così vivi, così vicini a chi gli osserva eppure così magnificamente persi nel loro mondo.
Vicinanza al reale e lontananza dagli schematismi dovuta anche al particolare uso della scrittura. Ingaggiato lo sceneggiatore televisivo Michel Moussy per ridefinire storia e dialoghi, Truffaut lascia molta della messa in scena all'improvvisazione, dirigendo Léud e gli altri attori in modo indiretto. Lo script diviene così spunto, non più strada da seguire, lasciando che personaggi e situazioni si adattino al momento, alle esigenze degli interpreti, delle location e dell'ispirazione dell'autore.




Il "nuovo cinema" trova così un battesimo ufficiale, un riconoscimento totale e definitivo. La Nouvelle Vague apre ufficialmente i battenti e Truffaut inaugura una florida carriera.
Nulla sarà più come prima.

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