di Steven Spielberg.
con: Haley Joel Osment, William Hurt, Jude Law, Frances O'Connor, Sam Robards, Ken Leung, Brendan Gleeson, Jack Angel.
Fantascienza/Favolistico/Drammatico
Usa 2001
---CONTIENE SPOILER---
Ai più potrebbe sembrare sciocco, impossibile, scandaloso ed increscioso, ma Steven Spielberg era il regista preferito di Stanley Kubrick. Ebbene si: una delle menti creative più geniali del secolo scorso, forse il più grande regista che sia mai vissuto (anche più di Orson Welles, che pur raggiungeva uno status quasi divino, anche solo per le proporzioni del proprio ego) guardava con ammirazione le opere di un ragazzetto divenuto celebre grazie ai successi di cassetta, nonché per aver contribuito alla fine della New Wave americana, per aver reintrodotto lo studio system ad Hollywood ed instupidito, un pò per volta, il cinema commerciale.
Sia chiaro, i momenti di frizione tra i due non sono mancati, come le aspre critiche che Kubrick mosse al pur capolavoro "Schindler's List", ma in generale e fino alla fine dei suoi giorni, egli ha comunque ammirato i film di Spielberg; e bisogna ricordare come l'Imperatore di Hollywood, tra una stupidata commerciale ed un film sopravvalutato, sia stato anche l'artefice di opere come "I Predatori dell'Arca Perduta" e "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo", veri e propri emblemi alla forza della Settima Arte; è da qui che, probabilmente, nasceva la simpatia di Kubrick: nell'aver compreso la sua maestria come creatore di storie e di forme immaginifiche in grado di imporsi con forza nell'immaginario del pubblico; oltre alla sua capacità di controllo sull'intera visione dell'opera, la sua "vis autoriale" vera e propria. Ed è stata forse proprio la visione di "Incontri Ravvicinati" che ha convinto Kubrick ad avviare con lui una collaborazione per l'adattamento di un piccolo racconto di fantascienza, breve mal dal potenziale visionario inusitato: "Supertoys last all summer long" di Brian Aldiss, pubblicato per la prima volta nel 1969, sorta di rilettura in chiave fantascientifica di "Le Avventure di Pinocchio" di Collodi.
Collaborazione che purtroppo non si è mai avverata: il 7 Marzo 1999, Kubrick sarebbe morto nel sonno, nel pieno della post-produzione di "Eyes Wide Shut", mesi prima dell'inizio della lavorazione dell'adattamento.
Ma da buon amico qual'era, Spielberg decise di portare su schermo quella visione, facendola propria e onorando il Maestro menzionandolo nei credits come produttore, proprio in un anno, il 2001, essenziale nella mitologia kubrickiana. Ottenuto il pieno controllo dell'opera, Spielberg finisce per creare una favola cyberpunk commovente e riuscita, nonostante le imperfezioni che ne fiaccano spesso la visione, che all'uscita fu letteralmente massacrata dalla critica (che si attendeva un film più "kubrickiano", vai poi a sapere perché, visto che è stato concepito fin dall'inizio per essere portato in scena da Spielberg, non da Kubrick) ma che oggi meriterebbe di essere riscoperta.
Spielberg scrive di suo pugno la sceneggiatura, rimaneggiando la prima stesura ad opera di Ian Watson. L'influenza di Kubrick è spesso avvertibile, sopratutto nella forma: tre atti, distinti in maniera netta, compongono l'intero film, come in "2001: Odissea nello Spazio" e "Full Metal Jacket". Al centro, la figura di David, che vive grazie ad una interpretazione straordinaria di Haley Joel Osment: nonostante la giovane età, Osment ha il talento ed il metodo di un veterano, caratterizza il piccolo mecha in modo empatico, ma lasciando sempre trasparire un che di sintetico, di falso, dal suo sguardo.
David è il Pinocchio dell'era post-cyberpunk: un robot che compie un'immane odissea per divenire un bambino vero e tornare a riabbracciare l'amata mamma. E Spielberg caratterizza in modo netto i tre episodi, concedendosi spesso di omaggiare Kubrick in modo diretto (l'arrivo a Rouge City, reminiscenza del "trip" di un altro David, l'astronauta di "2001") e di riprendere stilemi del suo stesso cinema (le creature del terzo atto, nel racconto originario mecha di ultima generazione che si erano "autoevoluti" a seguito dell'estinzione della razza umana ed ora in cerca delle proprie radici, vengono invece caratterizzati come alieni benevoli, benchè accreditati come "mecha", la loro natura non viene mai palesata forse proprio per cercare un parallelo con le altre creature benevole di Spielberg, gli alieni di "Incontri Ravvicinati"); con qualche caduta di stile ed una superficialità a tratti troppo marcata, fa sua la storia, crea una fiaba perfetta erede di quell' "E.T." che tanta fortuna gli garantì quasi 20 anni prima.
Il primo atto è anche il più riuscito sul piano della tematica; in un prologo forse troppo verboso, il demiurgo interpretato da William Hurt pone un quesito che richiama alla mente i lavori di Mamoru Oshii: è possibile che un robot provi emozioni? Ed anche riuscendo a costruire una I.A. in grado d provare vere emozioni, non semplici simulazioni, che rapporto dovrebbe avere con lui un umano? I sentimenti di quest'ultimo devono anch'essi essere veri?
Spielberg ovviamente dà una risposta diretta ed inequivocabile: David, anche se di natura artificiale, ha veri sentimenti, dunque è in tutto e per tutto un bambino vero, punto. Facile, qui, tracciare una distinzione con una possibile declinazione da parte di Kubrick, il quale avrebbe certamente trattato il tema in modo più adulto e complesso. Eppure questa semplicità non è per forza un difetto, data la natura fiabesca che Spielberg concede alla narrazione.
E nel primo atto, si sbizzarisce a creare un'atmosfera che combina perfettamente il calore familiare con l'alienazione provata dai genitori verso la strana creatura che hanno deciso di adottare. Con inquadrature dalla plasticità sorprendente, tutta la storia viene rinchiusa nelle quattro mura di casa (salvo una breve escursione nel giardino); usando in modo creativo le scenografie, David viene costantemente "staccato" dagli altri personaggi, incorniciandone il volto nel lampadario al neon, celandolo attraverso superfici trasparenti o riflettenti; da antologia la sua entrata in scena, con un fuori fuoco che piano piano ne definisce l'immagine.
La sua natura sintetica ne fa un essere sia empatico, a causa del suo processo emozionale reale, che del tutto mostruoso, dato il suo essere una creatura artificiale; i sentimenti di commozione e repulsione sono perfettamente mischiati. Al punto che quando alla fine la madre decide di abbandonarlo, non si può non piangere dinanzi alla cattiva sorte che lo perseguita.
E' in questo atto che Spielberg declina anche la tematica del rapporto uomo-macchina; e lo fa, purtroppo, in modo semplicistico, lasciando sulle spalle del personaggio della madre tutta l'empatia e caratterizzando tutti gli altri come mostri; il piccolo Martin, vero figlio della coppia, è un semplice bulletto che si diverte a perseguitare David per il solo gusto di farlo, talvolta neanche a causa della sua natura; così come il personaggio del padre si colora presto di quell'apprensione negativa che lo caratterizza come un cattivo vero e proprio.
Più riuscita la descrizione di David, a tratti, come moderno Mostro di Frankestein, che finisce per ferire gli altri inavvertitamente e convinto di fare del bene; la scena della piscina, in particolare, sembra un omaggio esplicito ad una delle sequenze più emblematiche del capolavoro di James Whale,quella dove la Creatura finisce per far annegare una bambina.
Il secondo atto è il più ameno e visionario. Spielberg paga un tributo sentito a Scott e al mito di "Blade Runner" nelle visioni di metropoli ammantate da una notte perenne, rischiarata unicamente dai neon delle insegne dei locali.
Ma del tutto originale è l'immaginario che popola una delle sequenze più vivide dell'intera pellicola, la "Fiera della Carne", dove gli umani si vendicano dei mecha linciandoli in uno spettacolo da baraccone condotto da un moderno Mangiafuoco (Brendan Gleeson); immagini di volti sorridenti sciolti dall'acido, teste volanti infuocate che si schiantano tra le sbarre di una prigione ed arti strappati sono il perfetto innesto orrorifico che permette alla storia di evolversi, di far avvicinare lo spettatore ancora di più e questa volta del tutto al protagonista, ora futuribile "Elephant Man" perseguitato però a causa del suo aspetto troppo umano.
La visita a Rouge City e al Dr. Know è la tappa obbligatoria in quella megacity cyberpunk dove gli umani riversano tutti i loro piaceri più lascivi, sorta di Sodoma al silicio. Il personaggio di Joe il Gigolo (Jude Law) diviene guida e compagno, strampalato eppure carismatico, un Lucignolo dall'indole buona che accompagna il piccolo Pinocchio nel Paese dei Balocchi per adulti.
Sino a giungere alla fine del mondo, quella Manhattan sommersa dalle acque del discioglimento delle calotte polari, ove ad attendere David non vi è la Fatina, bensì il suo creatore, che lo ha modellato sulle forme di un figlio morto prematuramente.
E dove lo attende la realizzazione più sconvolgente: al pari della Motoko Kusanagi di "Ghost in the Shell", anche David non è un essere dotato di una proprio unicità, bensì una creatura prodotta in serie (c'è persino una sua versione femminile battezzata "Darlene"); eppure l'imprint attivato dalla madre e la sua singolare esperienza ne hanno creato un carattere unico; ed un robot in grado di amare è anche in grado di odiare: nella sequenza più disturbante del film, David fa a pezzi un suo doppio, affermando con fervore la sua individualità. E qui Spielberg dà per scontato come l'empatia che proviamo per lui sia sufficiente per attestarne l'effettiva "anima", mostrando di nuovo il fianco alla superficialità più pura.
Nell'ultimo atto, giungono loro, i tanto criticati alieni, le cui fattezze ricordano quelli di "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo"; va sempre tenuto conto come si tratti in realtà di androidi super-evoluti, benché mai specificato nei dialoghi; solo verso le fine del seondo atto, è Joe a sottolineare come sia possibile che i mecha possano sopravvivere ai loro creatori, anticipandone la comparsa.
E David può finalmente coronare il suo sogno, tornare tra le braccia della madre, in un'atmosfera onirica dal grande fascino. Un lieto fine lungo, forse troppo, ma che porta lo stesso alla commozione.
E come Kubrick, anche Spielberg decide di ridurre all'osso i dialoghi, presenti perlopiù nel primo atto. A farla da padrone sono le immagini, le atmosfere oniriche ed ipnotiche. L'influenza del Maestro è spesso avvertibile: lo stile visivo di Spielberg si fa più posato, i suoi movimenti di macchina più fluidi, le inquadrature più ricercate, mentre il montaggio è spesso di puro servizio, subordinato ad una costruzione delle sequenze più plastica e ferma.
La mano di Spielberg, che pur vacilla quando si avvicina alle tematiche della morale e del rapporto uomo-macchina, è invece fermissima nel ritrarre lo stato emotivo del suo protagonista, a dar corpo alla sua solitudine, alla sua disperazione, alla sua incrollabile fede verso qualcosa di più grande; quello di David è un percorso irrazionale, tipicamente "umano", prova di come lo spirito dell'Uomo sia incrollabile, pur quando poggi su di una premessa irrazionale; è per questo che David resta l'empio più umano, appunto, di androide apparso al cinema, al pari dei replicanti di "Blade Runner".
E con la sua fiaba, il suo autore dimostra ancora di possedere un tocco "magico", in grado di regalare emozioni vere e forti anche agli adulti.
EXTRA
Diversi e gustosi i camei di star nei panni di personaggi secondari.
Chris Rock doppia e dona le sue sembianze al robot sparato dal cannone alla Fiera della Carne.
Ben Kingsley doppia il Mecha/alieno che accoglie David durante la Seconda Glaciazione.
Nella versione italiana, il personaggio è invece doppiato da Dario Penne, voce storica di Anthony Hopkins, che lo caratterizza come se fosse il grande sir Anthony a celarsi dietro i pixel della creatura.
La voce della Fata Turchina è quella di Meryl Streep.
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