con: Tom Cruise, Colin Farrell, Samantha Morton, Max Von Sydow, Neal McDonough, Jessica Capshaw, Patrick Kirkpartick, Frank Grillo, Tim Blake Nelson.
Fantascienza/Azione
Usa 2002
---CONTIENE SPOILER---
La sinergia tra un attore ed un regista può portare davvero a decretare la riuscita di un film. Basti pensare, su tutti, al sodalizio tra John Carpenter e Kurt Russell: i personaggi del primo, anche i più ameni ed improbabili, nelle mani del secondo sono divenuti delle vere e proprie icone pop. E nei primi anni 2000, sembrava che un'altra accoppiata si sarebbe formata per dare lustro al cinema spettacolare americano, quella tra Steven Spielberg e Tom Cruise.
L' unione tra due superstar di Hollywood del genere era solo questione di tempo: il primo è l'imperatore indiscusso del box-office ed il secondo anche, oltre ad essere due nomi e due volti immediatamente riconoscibili ed amatissimi dal grande pubblico. A stupire, semmai, è la lunga tempistica che quest'incontro ha richiesto: incontratisi per la prima volta sul set di "Risky Businness" nel 1983, i due lavoreranno inseme solo una ventina di anni dopo, grazie alla produzione di "Minority Report", dove l'affinità elettiva tra i due trova pieno compimento.
Ed a stupire maggiormente è la scelta del progetto alla quale i due prendono parte: l'adattamento di uno racconto di Philip K.Dick, scrittore la cui carica acida e sovversiva cela una visione filosofica profonda, carica di dubbi esistenzialistici e religiosi; non propriamente la materia di cui sono fatti i blockbuster estivi post anni '90, insomma.
Eppure, con tutti i suoi limiti, "Minority Report" riesce ad essere un film se non proprio riuscito, almeno divertente.
Nel 2054, nello stato di Washington D.C., viene introdotta una nuova forma di polizia: la pre-crimine; mediante l'uso di tre pre-cog, mutanti dalle capacità precognitive, questa unità è in grado di prevedere l'imminente commissione di reati e sventarli prima che si consumino.
A capo dell'unità c'è John Anderton (Cruise), mentre a supervisionarla c'è l'anziano Lamarr Burgess (Max Von Sydow), vero e proprio inventore del sistema. Anderton è però reduce da una profonda crisi personale che ne ha indurito il carattere, rendendolo integerrimo. Ma persino Anderton può nulla quando, di punto in bianco, i pre-cog hanno la visione di un futuro omicidio commesso proprio da lui ai danni di uno sconosciuto.
Il racconto originale di Dick, pubblicato per la prima volta nel 1956, poneva un quesito scioccante: è davvero possibile prevenire un crimine? Se un uomo sta per commetterlo, ma viene fermato prima che lo possa davvero consumare, questi è davvero colpevole? Può, in sostanza, l'eliminazione del libero arbitrio portare ad una forma di pace sociale?
Domande alle quali Dick si accostava con umiltà, arrivando talvolta a prendere una posizione netta, affermando l'impossibilità del controllo totale da parte dell'essere umano sul flusso di eventi e, di conseguenza, sulla realtà.
Lo script orchestrato da Scott Frank per conto di Spielberg, d'altro canto, accantona ogni riferimento esistenzialista ed tutte le derivazioni politiche per concentrarsi maggiormente sul personaggio di John Anderton. Non più uno personaggio dickiano doc, un piccolo uomo quasi meschino coinvolto suo malgrado in situazioni più grandi di lui, Anderton è ora il perfetto eroe americano; incarnato nel corpo atletico di Cruise (che come sempre esegue da solo gli stunt), con il suo sorriso da fotomodello e lo sguardo vacuo, il poliziotto della pre-crimine è anche un buon padre di famiglia ferito dalla scomparsa del figlioletto. E come sempre nel cinema di Spielberg la famiglia è il nido primordiale, il valore cardine di ogni persona, tanto che all'ambiguità del finale originale, preferisce un'orrendo happy ending, con colori da spot pubblicitario ed un'ingenuità di fondo da far impallidire persino quella del finale de "I Predatori dell'Arca Perduta".
Pur tuttavia, va riconosciuto a Spielberg il merito di non aver eliminato né la tossicodipendenza del personaggio, né la tematica, tipicamente dickiana, dell'abuso di sostanza psicotrope come mezzo per aumentare la percezione del reale: anche su schermo, i pre-cog devono i loro poteri all'uso di droga da parte della defunta madre.
Meno riuscito è invece il tentativo di ripresa dello humor sarcastico che Dick spesso usava per tingere di grottesco gli eventi; Spielberg non riesce a fondere una storia seriosa con sequenze e battute sopra le righe, creando un ibrido talvolta troppo scostante.
Anderton è anche qui un uomo coinvolto in un gioco di potere più grande di lui. Il quesito alla base della (pur piatta) riflessione è se sia giusto supportare un sistema che consente l'eliminazione pressocché totale della devianza sociale pur essendo consapevoli della sua fallacia: il rapporto di minoranza del titolo altro non è che una visione minore data da uno dei tre precognitivi, che tiene conto di una linea temporale alternativa lunga la quale gli eventi possono sempre ripiegare.
Ma "Minority Report" non è tanto una pellicola hard sci-fi, né la giusta contaminazione tra generi alla "Blade Runner", quanto un film d'azione vero e proprio che ha la forma narrativa di un noir e l'estetica di un film di fantascienza. E' l'azione a farla da padrone, con i lunghi inseguimenti, i blitz della polizia, le sparatorie eseguite con armi non letali e le corse sui mag-lev. Spielberg crea così un giocattolo che intrattiene perfettamente per le sue due ore e passa di durata e che ha le vestigia di quella letteratura fantastica post-moderna che, anche quando usata come mero pretesto, riesce lo stesso a coinvolgere.
Il suo lavoro sull'estetica ha fatto, bene o male, scuola; la desaturazione dei colori porta ad usare cromatismi sempre freddi: bianchi, blu e scale di grigio divengono le uniche palette utilizzate, per creare un'atmosfera aliena, volutamente distante da tutto e tutti, che cede il passo al calore solo in quel finale stile Mulino Bianco, rendendolo ancora più tedioso; il resto del film si compone invece di immagini glaciale, spesso sgranate, per ottenere una ruvidità che le rende ancora più espressive.
La visione del futuro si rifa ai principi estetici ultramoderni, dove l'essenzialità delle forme nel design degli oggetti diviene un imperativo. Un tocco post-modernista viene poi dato dalla musica di Schubert e dalle innumerevoli citazioni che Spielberg si diverte a disseminare lungo tutto il film: i rimandi all'occhio da "Blade Runner", le dita luminose di Anderton come quelle di "E.T.", il divaricatore oculare tanto simile alla "cura ludovico" dell' "Arancia Meccanica" dell'amico Kubrick e via discorrendo.
Ma la citazione più famosa e più importante risiede in un colpo di scena essenziale: alla fine del secondo atto, quando la corsa di Anderton sembra essere finita, i personaggi di Burgess e Danny Witver (Colin Farell) si incontrano e la scena che prende vita è praticamente un rifacimento di una identica scena presente in "L.A. Confidential"; nel film di Curtis Hanson, il personaggio di Jack Vincenness, interpretato da Kevin Spacey, e quello di Dudley Smith , interpretato da James Cromwell, discutono sulla risoluzione del mistero alla base della storia, la quale è in realtà solo apparente, così come nel film di Spielberg; ed entrambe le scene si concludono con il poliziotto più anziano che uccide il collega più giovane, rivelandone la natura di "villain" e motore degli eventi.
Una mera citazione? E' possibile. Ma molti critici e spettatori si sono domandati se non ci sia qualcosa di più, se in realtà il terzo atto, il più lineare del film, afflitto anche da buchi e forzature (Anderton viene liberato dalla prigionia dalla ex moglie, che di punto in bianco diviene perfetta personaggio d'azione), non sia che un sogno fatto dal protagonista mentre si trova in stato di incoscienza. L'intero finale del film, compreso quell'odioso lieto fine, altro non sarebbe che il parto della mente di colui che è il punto di vista dello spettatore sugli eventi. Ambiguità propria di molti adattamenti di opere di Dick su schermo, basti pensare allo splendido "Atto di Forza" di Paul Verhoeven.
Eppure, non ci sono indizi espliciti, nel film, che lascino intendere una tale effettiva ambiguità; è possibile che in una prima stesura, l'ambivalenza del racconto fosse più marcata ed in un secondo momento Spielberg abbia deciso di appiattirla per rendere il prodotto finale più appetibile per il grande pubblico, al solito sottovalutando l'intelligenza degli spettatori. Il risultato finale è quindi spiazzante sotto molteplici punti di vista.
"Minority Report" resta così un blockbuster di puro intrattenimento. Più intelligente ed elegante di molti altri prodotti made in Hollywood, ma troppo esangue per essere una pellicola di fantascienza davvero interessante. E' un ottimo film d'azione, con un cast affiatato e belle sequenze, ma rimane l'amaro in bocca se si pensa a cosa sarebbe potuto essere nelle mani di un autore di radicale rispetto a Spielberg.
EXTRA
L'odioso trend moderno di trasformare qualsiasi film di genere in una serie televisiva, con risultati risibili, non ha risparmiato "Minority Report". Forti del nome e dell'ottimo riscontro di critica e pubblico, i creativi della Fox hanno così dato vita ad un serial di 10 episodio, trasmessi nell'autunno del 2015.
La serie si pone come continuazione degli eventi del film ed ha come protagonista uno dei tre pre-cog, Dashiell, ma non possiede né la carica visionaria, né il gusto per le coreografie proprio del lungometraggio dal quale riprende gli eventi.
Concordo, non è il miglior Spielberg... certo a posteriori quella schifezza che è la serie tv me l'ha fatto rivalutare :D
RispondiElimina