con: John Huston, Peter Bogdanovich, Robert Random, Tonio Selwart, Susan Strasberg, Oja Kodar, Edmond O'Brien, Lili Palmer, Cameron Mitchell, Dennis Hopper, Claude Chabrol, Paul Mazursky.
Usa, Francia, Iran 1970-2018
E' opinione comune quella secondo la quale Orson Welles non sia mai riuscito ad eguagliare il successo del suo esordio, quel "Quarto Potere" il quale, se non è davvero il più grande film mai realizzato, merita quantomeno di essere incluso tra i migliori tre. Ma la causa di questa "maledizione" è davvero dovuta ad una mancanza di ispirazione o di talento?
Welles stesso amava definirsi "un ciarlatano", un uomo privo di vero talento che è riuscito ad arrivare in cima alla vetta solo perché ha sempre avuto la fortuna di trovare persone che hanno creduto in lui.
Il che, di fronte alla caratura dei suoi lavori, risulta essere quanto meno un'esagerazione; perché se è vero che la fortuna non gli ha mai arriso come nel suo esordio, è altrettanto vero che quasi tutti i film da lui diretti possono tranquillamente essere etichettati con l'abusata, ma in questo caso mai fuori luogo, parola "capolavoro". E forse, sotto sotto, questo presunto ciarlatano sapeva di essere tra i migliori cineasti mai esistiti.
Come capita a tutti i grandi autori, anche Welles può vantare una pletora di lavori lasciati incompiuti; ma, nel suo caso, non si tratta di film la cui produzione non è mai partita (come invece accaduto, ad esempio, a Kubrick con il suo "Napoleon", giusto per citare un altro grande sogno infranto di un altro tra i più grandi di sempre), bensì di film iniziati ma mai portati a compimento; tra i quali almeno due sono opere pubblicate postume e di grande interesse: il suo "Don Chisciotte", visionaria rilettura del classico di Cervantes, girato e rigirato nel corso di una vita e poi assemblato da Jesus Franco, suo collaboratore durante le riprese, nel 1992; e, sopratutto, "The Other Side of the Wind", il suo film più sperimentale, girato nel corso di cinque anni ma mai montato.
Un'opera, quest'ultima, la cui riesumazione è stata lenta e dolorosa: coprodotta niente meno che dal cognato dello scià Reza di Iran, viene bloccata e sequestrata a seguito della rivoluzione; Welles non riuscirà mai a racimolare, in vita, il milione e mezzo di dollari necessario per riottenerne i diritti e i lavori per il suo completamento sono iniziati solo dopo la sua morte.
Partita dapprima su Indiegogo, la campagna per far vedere il buio della sala al film si è conclusa solo qualche mese fa, con l'ingresso di Netflix tra i finanziatori; solo grazie ai capitali del gigante dello streaming è stato possibile finire il montaggio e presentare il film prima a Venezia, poi al mondo mediante la condivisione sulla relativa piattaforma; e il limite è ovviamente intrinseco all'operazione in sé: non è dato sapere se il film presentato al pubblico sia effettivamente quello voluto da Welles, il quale, mai come in questo caso, aveva tutto sigillato nella sua mente.
Per comprendere appieno cosa sia (o cosa avrebbe dovuto essere) "The Other Side of the Wind" occorre quindi guardare in contemporanea il documentario "Mi ameranno quando sarò morto", rilasciato sempre su Netflix in contemporanea al film vero e proprio, il quale consente di inquadrare al meglio la visione del geniale regista, sopratutto da un punto di vista storico.
La produzione del film ha infatti inizio nel 1970 e si protrarrà sino al 1975; lustro di per sé stesso essenziale nel contesto del cinema americano: è infatti questo il periodo più fulgido nella New Wave di Hollywood, durante il quale cinema d'autore e cinema di cassetta sono la stessa cosa e dove è finalmente il regista, inteso come autore, ad essere la sola mente creativa dietro al film. Cambio di prospettiva che sembrerebbe giovare al povero Welles, il quale, a seguito del sabotaggio del suo secondo film, "L'Orgoglio degli Amberson", è divenuto un vero e proprio reietto della Mecca del Cinema, costretto come è stato a passare circa vent'anni in Europa per poter continuare a fare film.
Eppure, nonostante il nuovo clima, la visione di Welles era troppo alienante per i produttori, costringendolo a trovare finanziatori esteri; e, alla fine, è solo grazie all'amicizia del suo protegee Peter Bogdanovich se Welles è riuscito a concludere il tutto. Questo perché per la prima ed unica volta nella sua carriera, il grande artista decide di girare senza usare uno script, lasciando molto di quanto di filmato alla pura improvvisazione, ma avendo sempre e comunque un'idea chiara sul da farsi, avendo, cioè, sempre il pieno controllo dell'opera; anche se di questo controllo era l'unico ad essere a conoscenza.
Improvvisazione che parte da un canovaccio tipico per l'epoca: da una parte, la storia di un vecchio regista, Jake Hannaford (interpretato dall'amico fraterno John Huston) e della celebrazione del suo settantesimo compleanno; dall'altra il film che Hannaford sta completando, pellicola nella pellicola, chiamata anch'essa "The Other Side of the Wind"; e già da queste poche righe si intuisce la complessità di quello che è, tutt'oggi, l'ultimo film completo del grande artista.
Hannaford come Welles, Otterlake, il suo figlio artistico, come Bogdanovich, il film a cui lavorano come l'opera stessa di Welles, in un gioco di rimandi e di specchi intricatissimo. C'è specularità tra realtà, finzione e finzione nella finzione, dove tutto è il doppio di qualcosa o qualcuno. Primo, è "The Other Side of the Wind" in sé, ossia un film che è a sua volta il doppione della sua storia produttiva, con un regista alle prese con un film che non completerà mai; una pellicola scostante, lontana anni luce da quanto il grande regista ci ha abituato, formato da ben 96 ore di girato montate in appena due da Bogdanovich e Bob Murawski; un film dove il punto di vista è multiplo, quello delle decine (centinaia?) di cineprese che seguono ossessivamente quelle che saranno le ultime ore di vita di Hannaford; un film, sopratutto, dove molteplici sono le chiavi di lettura.
Tolta dinanzi la più ovvia, ossia quella di "cronaca sfalsata del reale" e di stilettata alle ossessioni della New Hollywood, un'interpretazione calzante sembrerebbe essere quella che ha al centro la distruzione sistematica della narrativa classica: la mancanza di un polo totalizzante nella narrazione si fa caos e il film altro non è che la forma di questo caos, montato in modo frenetico, convulso, febbricitante, una forma che cerca di imbrigliare in sé qualcosa che per sua stessa definizione forma non può avere, pena la morte; da qui la frase che chiude il film, lapidaria, che ci ricorda come circoscrivere il reale ad un fotogramma equivale ad uccidere ciò che si riprende.
Ancora più calzante appare la lettura edipica, con il rapporto conflittuale tra Hannaford ed Otterlake, specchio di quello tra Welles e Bogdanovich; Hannaford è la Vecchia Hollywood, nata e cresciuta nel mito dell'uomo-macho, a metà strada tra Hemingway (citato esplicitamente) e John Ford (mito personale di Welles, che in Hannaford rivive grazie ai natali irlandesi del personaggio), oramai ridottosi ad un vecchio autore che cerca nuova linfa vitale attraverso i propri attori (nei panni della bella nativa americana troviamo non per nulla Oja Kodar, all'epoca amante di Welles e sua ultima musa); un uomo ancorato ai vecchi valori e alla vecchia guardia, circondato dai vecchi amici e collaboratori di una vita, che ha un suo modo particolare di vedere il cinema e la vita in generale e che non accetta (o non vorrebbe accettare) compromessi di sorta. Otterlake è invece la nuova generazione, cresciuta nel ventre dei maestri, verso i quali prova forse sin troppo rispetto; un cinefilo convinto, rampante ed arrogante e per questo destinato a vivere da solo la sua carriera. Tra i due c'è una forma di rispetto in realtà labilissima, pronta a crollare da un momento all'altro sotto i colpi della differenza d'età e di carattere.
La festa di compleanno diviene così non-luogo per mettere a nudo tutte le incomprensioni e le viltà private; prime fra tutte, quelle dello stesso Hannaford, il quale usa la sua verve da macho per nascondere una forma di insicurezza che forse sfocia nell'omosessualità latente; e, prima ancora, usa la sua finta allegria per celare un nervosismo incontrollabile verso la sua nuova opera, dovuto all'abbandono del suo protagonista, del quale decide di duplicare le forme in quei manichini che, in un accesso d'ira, distruggerà con gusto.
Ulteriore nucleo tematico è, ovviamente, il film di Hannaford, quel coacervo di immagini talmente perfette nella loro ricercatezza da divenire subito irreali, ipnotiche, vicinissime non solo alla perfezione del cinema wellesiano classico, ma anche a quel cinema d'autore europeo che tanto fascino esercitava sui cineasti americani dell'epoca; facile sarebbe vedere nell'omaggio di Welles una parodia beffarda di quel modo di intendere la narrazione filmica, avvalorata anche dai rimandi espliciti ad Antonioni e Bertolucci. Forse più azzeccato è invece vedere questo meta-film come un semplice doppio di Hannaford e della sua disperata ricerca del suo protagonista, della pulsione, anche erotica, verso un qualcosa che non si può ottenere; una ricerca costante, che comincia come un pedinamento, diviene contatto per il tramite di un altro doppio, una bambola, ossia un puro corpo, che viene fatto a pezzi; ricerca che si sublima nella sequenza di sesso in macchina (praticamente l'unica in tutta la filmografia di Welles), ma che non arriva ad una catarsi perché "castrata" prima, sino ad un'inversione delle parti, con l'oggetto del desiderio che diviene soggetto alla ricerca del proprio desiderio, solo per poi perderlo, realizzando come ne stesse inseguendo unicamente la mera forma.
"The Other Side of the Wind" diviene così il film più scostante di Welles, un'opera mai conciliatoria né nella forma, tanto meno nei contenuti, dove, anzi, vi è una costante ricerca estetico-narrativa che sfocia nella totale distruzione del classicismo nella messa in scena; un'opera, in sostanza, radicale e complessa fin nel midollo, eppure perfettamente riuscita perché sempre e comunque coerente con i propri intenti.
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