martedì 3 maggio 2022

The Last thing Mary saw

di Edoardo Vitaletti.

con: Stefanie Scott, Isabelle Fuhrman, Rory Culkin, Daniel Pearce, Judith Roberts, Carolyn McCormick, P.J. Sosko, Tommy Buck, Dawn McGee.

Usa 2021

















Trovare uno sbocco creativo all'interno di un sistema lavorativo (cinematografico e non) asfittico come quello italiano è un'impresa davvero ardua; anche per questo, Edoardo Vitaletti ha deciso di portare il suo talento all'estero, direttamente ad Hollywood, dove con appena un cortometraggio all'attivo è riuscito a trovare l'appoggio di Shudder per dare vita al suo esordio nel lungometraggio. E la trama "The Last thing Mary Saw", paradossalmente, potrebbe essere definita come una storia tipicamente americana, fatta di intolleranza ed esclusione che producono violenza, valida nel XIX secolo come oggi. E per Vitaletti, si configura come un esordio imperfetto ma al contempo interessante.



1843. In una tenuta nel nord degli Stati Uniti, soggiogata da una matriarca (Judith Roberts) dedita al fanatismo religioso più bieco, si consuma l'amore "maledetto" tra Mary (Stefanie Scott), rampolla della famiglia, e la serva Eleanor (Isabelle Fuhrman), il quale potrà ovviamente a conseguenze disastrose.



Quello di "The Last thing Mary saw" è un dramma d'amore virato all'orrore dove quest'ultimo è sempre sottinteso, persino quando mostrato in modo diretto. C'è qualcosa di sinistro nella magione, qualcosa che striscia sottopelle e che non è limitato alla "semplice" intolleranza. Il puritanesimo calvinista che condanna ogni forma di "perversione" è una scusante, un puro strumento per mantenere un ordine. "E' Dio a creare il male per legittimare se stesso" afferma Mary durante l'interrogatorio che spezza la narrazione in flashback. Vitaletti opera così su due fronti differenti, affiancando la specifica condanna dell'intolleranza verso l'omosessualità ad un più generico discorso sul potere.


Un potere che sostituisce il patriarcato che tanto cinema woke invoca con un matriarcato altrettanto opprimente. Non conta il sesso, conta solo chi esercita il potere. E la madre qui ha il volto marcato di una Judith Roberts che sembra la versione gender-bender di Klaus Kinski, in grado di comunicare un senso di disagio e terrore primordiale ad ogni sguardo.
E' un potere totale, che non ammette eccezioni che non siano volute e che si legittima proprio tramite queste, tramite la creazione di un "male" da usare come monito per sottomettere il prossimo, un coagulante per creare unità tra individui che perdono la loro specificità per divenire un unico insieme famigliare. Un potere che cela un'origine arcana, aliena e forse demoniaca, ma che fa proprie le forme della parola di Dio per legittimare le proprie azioni, come tanta retorica destrorsa (non solo) americana insegna.
Il dramma dell'amore saffico soffre invece di uno svolgimento "classico", dove tutto è bene o male intuibile, senza guizzi né forza espressiva inedita che sia.



Vitaletti riesce tuttavia a creare un'atmsofera opprimente fatta di luce di candele e interni minimali, primi piani soffocanti spesso messi di profilo e rarissimi campi larghi che spezzano solo in parte la tensione. Narra tutto con un ritmo lento quasi fino all'immobilità, lasciando che siano i sottintesi a parlare, creando un crescendo che deflagra solo in parte nel climax.
Purtroppo, decide altresì di lasciare sin troppo nel non-detto, di non approfondire la mitologia da lui stesso creata, creando talvolta confusione e fermandosi troppo spesso alla superficie di un racconto che ben avrebbe potuto mostrare più sfaccettature, sia sul piano del "genere" che della metafora.


Anche al netto di un'esecuzione talvolta sbrigativa (benché controbilanciata da un ritmo lento), il lavoro di Vitaletti è davvero notevole, perfetto biglietto da visito per una carriera che si preannuncia quantomeno interessante.

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