venerdì 15 marzo 2024

Salvatore Giuliano

di Francesco Rosi.

con: Frank Wolff, Salvo Randone, Pietro Cammarata, Max Cartier, Nando Cicero, Cosimo Torino, Carmelo Oliviero, Renato Pinciroli, Francesco Rosi.

Storico/Inchiesta

Italia 1962















Il 5 Luglio 1950, il corpo esanime del bandito Salvatore Giuliano viene ritrovato nel cortile di un'abitazione privata in Castelvetrano. E' questo l'epilogo di una storia controversa e sanguinosa, della quale molti dettagli risultano ancora oggi oscuri e sulla quale è sempre stata avvertita l'ombra di Cosa Nostra, oltre che degli ambienti più meschini della Democrazia Cristiana. 
Quello che si può dire della storia di Giuliano con certezza, è che, culminata come fu con la strage di Portella della Ginestra il 1 Maggio 1947, ha rappresentato il perfetto battesimo di sangue della Repubblica Italiana e di quella Prima Repubblica a guida DC nella quale le stragi di cittadini innocenti e la violenza esasperata saranno elementi caratterizzanti; e che la sua morte ha rappresentato il primo mistero di una storia italiana che farà di arcani, menzogne e sangue i suoi tratti essenziali.




Una storia che inizia durante la Seconda Guerra Mondiale. Nato in una famiglia di contadini e anch'egli dedito all'agricoltura, Giuliano avvia la propria carriera criminale appena ventenne, contrabbandando alimenti del mercato nero. Dopo essere fuggito da un posto di blocco e aver freddato un carabiniere nel 1943, organizza il nucleo di quella che diventerà la "Banda Giuliano", della quale elemento di punta è il sodale Gaspare Pisciotta, che negli anni successivi si rivelerà elemento chiave delle vicende. 
Durante la guerra, la banda di Giuliano si occupa di sequestri e estorsioni per conto di Cosa Nostra in danno della popolazione, tanto che persino Tommaso Buscetta, anni dopo, lo inquadrerà come membro dell'associazione mafiosa.
Tuttavia, è dopo la fine della guerra che la sua figura inizia a diventare più di quella di un semplice mafioso. Giuliano si avvicina infatti al Movimento Indipendentista Siciliano e ne diventa il braccio armato, inscenando vere e proprie azioni di guerriglia contro lo Stato, che si sostanziano in attacchi aperti contro le stazioni dei carabinieri sparse per la Sicilia. 
Dopo la fine dell'esperienza separatista, Giuliano viene acclamato come un eroe del popolo da parte della popolazione siciliana, per il suo essersi scontrato contro una classe politica percepita come ostile, e le sue gesta vengono caricate di un'aura mitica, nonostante siano sempre rivolte all'illegalità spicciola; anche perché, nelle sue parole, l'azione brigantesca era sempre rivolta all'emancipazione del popolo siciliano.
Dopo la strage di Portella della Ginestra, ai danni della popolazione contadina che sfilava per la Festa del Lavoro, la Banda Giuliano devasta anche le sedi del PCI sparse per la Sicilia, mettendosi così contro sia le autorità che parte di quella popolazione che, a parole, sosteneva.
Poco prima della sua morte, Giuliano, in una serie di interviste rilasciate ai giornalisti che si recavano sui monti nei quali viveva alla macchia, attestava la sua vicinanza agli ambienti conservatori, in particolare della Democrazia Cristiana, prima ancora che con i separatisti e i movimenti sovversivi dei primi anni della Repubblica. La sua morte, di fatto, arriva all'improvviso e ha tutti i connotati di un'esecuzione adoperata sia per buttare via uno strumento oramai inutile, sia per obliare quelle scomode verità da lui conosciute.




Nel 1960 circa, Francesco Rosi inizia la lavorazione di un film su Giuliano, la sua storia e le implicazioni sociali e morali che la connotano. Di concerto con la sceneggiatrice Suso Cecco D'Amico, sviluppa un primo script definibile come "convenzionale", con Giuliano al centro della vicenda ed una costruzione drammaturgica del tutto classica. Tutto questo avviene a porte chiuse negli uffici di Roma ed è proprio a causa di questa lontananza fisica dai luoghi in cui il bandito ha vissuto che Rosi sente la necessità di recarsi in Sicilia, anche solo al fine di collegare il suo personaggio lì dove le riprese dovrebbero avvenire.
Giunto a Montelepre, inizia a raccogliere tutta una serie di testimonianze dei cittadini del luogo, ove il nome del bandito risuona ancora forte dieci anni dopo la sua scomparsa. Contemporaneamente, la D'Amico, assieme ad un ispettore di produzione, inizia a spulciare i fascicoli dei processi ai membri della banda e a Pisciotta, ritrovando tonnellate di incarti presso il Tribunale di Viterbo contenenti le relative testimonianze. Il numero di aneddoti è talmente alto e talvolta talmente dettagliato, così come le deposizioni sono chilometriche e così dense di dettagli inquietanti, che Rosi e la d'Amico decidono di optare per una forma narrativa più libera, meno vincolata alla costruzione classica e lineare degli eventi. Una forma che finisce praticamente per ibridare la canonica narrazione documentaristica con la messa in scena propria della fiction: nasce il film d'inchiesta, che unisce i due registri per crearne un terzo, dotato della verosimiglianza del primo e della forza drammatica del secondo.
"Salvatore Giuliano" potrebbe così essere applaudito solo per questa intuizione che finirà per cambiare il volto di tanto cinema impegnato e non. Ma la sua importanza e la sua bellezza sono ulteriori e attengono tanto alla forma filmica quanto al contenuto civile di tutta l'opera.




Rosi parla apertamente di mafia, pronunciando il sostantivo più e più volte con la sua stessa voce narrante. 
Il ritratto che compie in primis del MIS è impietoso, descritto come un gruppo di opportunisti facinorosi che pur ispirati da nobili ideali, non disdegnano la violenza contro gli stessi Siciliani. Ma di più, arriva già in tempi non sospetti a descrivere il rapporto simbiotico tra criminalità organizzata e Stato: i carabinieri inviati in Sicilia per reprimere il banditismo lavorano gomito a gomito con Cosa Nostra una volta che la regione acquisisce l'autonomia, rendendo inutili i movimenti separatisti e vetusti i metodi di Giuliano. Gli ufficiali sono ritratti mentre incontrano i capi mandamento e trattano con gli stessi per la consegna dei membri della banda, come due facce della stessa medaglia, due incarnazioni di un potere che può affermarsi solo con il sotterfugio e il ricatto.




La storia del bandito e della banda viene scissa in quattro parti, poi sovrapposte in sede di racconto: la collaborazione con il MIS, l'attività di banditismo dopo l'ottenimento dell'autonomia (con la strage di Portella della Ginestra), la morte di Giuliano e il processo a Pisciotta e ai membri della banda, con le clamorose rivelazione fatte durante le udienze.
Rosi non vuole raccontare Giuliano, la sua figura mitologica e i motivi che lo spinsero a continuare l'attività di bandito anche dopo i giorni del MIS. A Rosi interessa fare il punto della situazione, dare uno spaccato credibile di un pezzo di Storia (allora) recente, illustrando le contraddizioni di una regione che da sole rappresentano le contraddizioni dell'intero Paese. E' per questo che in "Salvatore Giuliano" di Giuliano non c'è quasi traccia: appare quasi sempre in campo lungo, spesso di spalle, talvolta viene persino lasciato fuori campo; quando la macchina da presa gli si avvicina, lui è un cadavere, puro oggetto passivo. Perché in questa storia lui è solo un tassello, importante quanto si vuole, ma pur sempre una parte di un tutto più grande, proprio come il vero Giuliano era nella realtà, solo uno strumento in un gioco di potere ben più grande di lui.
Rosi non formula teorie sulla strage del primo maggio, lascia che siano i personaggi a sollevare i dubbi, recitando gli estratti degli interrogatori; laddove la connivenza tra Stato e mafia viene ritratta esplicitamente, il rapporto tra il bandito e gli alti papaveri della DC viene lasciato fuori dal testo, non per paure di ritorsioni, quanto perché all'epoca delle riprese molte delle verità scomode non erano ancora emerse. Tant'è che sarà solo "Segreti di Stato", nel 2003, a ipotizzare che tra i mandanti della strage ci fosse niente meno che Giulio Andreotti.




Il racconto di "Salvatore Giuliano" è di una modernità ancora oggi sorprendente. Partendo da una storia lineare per ovvi motivi, Rosi intesse una narrazione fatta di andirivieni e non semplici flashback, iniziando dall'epilogo, con la prima, iconica, immagine del cadavere di Giuliano riverso in terra, per poi tornare indietro e ricostruire la storia della banda partendo dal 1945, fino ad approdare, nell'ultimo atto, all'uccisione e al successivo processo alla banda.
L'intento è quello di creare un documento fedele ai fatti e precisa nella ricostruzione storica, ma che non sia davvero una semplice cronaca, lasciando talvolta l'emozione trasparire. L'immagine più famosa (e in realtà anche più ovvia) è quella della bellissima scena nella quale la madre del bandito viene chiamata ad identificarne il cadavere, dove l'emozione della donna viene ritratta senza filtri, con una spontaneità che riesce davvero a far vacillare il limite tra documentario e finzione. Ma per tutto il film si lascia che le emozioni dei personaggi traspaiano con chiarezza, quando necessario, senza cercare di contenerle, lasciando che la loro espressività colori i fatti in modo vivido. Una passione umana che fa un paio perfetto con quella civile sfoggiata dagli autori.




Grazie alla splendida fotografia del fido Gianni Di Venanzo (che poi illuminerà anche "8 1/2"), l'occhio di Rosi forgia nuovamente immagini ammalianti, dalla squisita composizione pittorica nelle inquadrature, la cui precisione della disposizione dei corpi nello spazio è a tratti sorprendente, come nelle sequenze del processo, graziate da movimenti di macchina precisi al millimetro. E sempre in tali sequenze, Rosi sfoggia un montaggio virtuosistico, che fa della cesura temporale uno strumento narrativo che anziché frammentare il racconto, lo cuce in modo perfetto, saltando avanti e indietro nel tempo con la sola giustapposizione delle inquadrature.



La grandezza di Rosi come narratore va così ritrovata nella dirompente forza di "Salvatore Giuliano". Un'opera tutt'ora interessante per la ricostruzione certosina degli eventi, ma soprattutto per la sua capacità di intessere un racconto dalla modernità forse oggi persino più apprezzabile, che continua a sorprendere sia per la bellezza estetica che per l'efficacia di un registro narrativo innovativo e pregnante.

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