di Abel Ferrara.
con: Matthew Modine, Claudia Schiffer, Dennis Hopper, Steven Bauer, Beatrice Dalle, Sarah Lassez.
Usa, Francia 1997
---CONTIENE SPOILERS---
La rottura con il fido Nicolas St.John non ha di certo giovato al cinema di Ferrara. La mancanza della costruzione narrativa solida e profonda del suo sceneggiatore di fiducia lo fa crollare, all'indomani dell'ultimo capolavoro del duo "Fratelli" (1996), in una parentesi velleitaria, nel quale il grande autore fa confluire nuovamente alcune delle sue ossessioni senza tuttavia riuscire a declinarle in modo adeguato.
"Blackout" è la prima tappa di questo nuovo corso del cinema ferrariano: un film visionario e cupo, eppure fatalmente inerte.
Come in "The Addiction" (1995), torna in scena il mondo del peccato, un universo fosco, totalmente immerso della tenebra del rimorso e del rimosso, della paura di sé stessi e delle proprie azioni. Al centro della narrazione troviamo un nuovo "dannato", Matty (Matthew Modine), perfettamente incardinabile nella tradizione del cinema di Ferrara. Un uomo totalmente dedito al vizio: superstar affermata persa tra fiumi di alcool e montagne di coca, immerso nell'eccesso sessuale del night club dell'amico Mickey (Dennis Hopper), videoartist alle prese con un remake hardcore del "Nana" (1955) di Christian-Jacque. Ma Matty ha anche un lato positivo, un nocciolo di bontà che vede nella gravidanza della fidanzata Annie (Beatrice Dalle) l'opportunità di creare qualcosa di buono. Finchè questa non abortisce, causando un crollo psicologico totale nel partner.
Sempre dal passato torna anche la fusione tra l'analisi psicologica dei personaggi e l'ossessione per la creazione filmica, che si riaffaccia da "Occhi di Serpente" (1993) riallacciandosi in modo ancora più diretto con i dettami della Nouvelle Vague, esplicitamente richiamata tramite l' "evocazione" dello spettro di Godard. E come nella tradizione del grande cineasta francese, anche "Blackout" vive di un montaggio spezzato, della rincorsa verso il protagonista, dei primi piani dei personaggi, della scompaginazione totale dello schematismo volto a creare una nuova forma narrativa, che qui si plasma sulla moda della video-ripresa e sul montaggio frammentato, con dissolvenze incrociate, ellissi, flashback e flashforward che distruggono l'unità spaziotemporale del racconto per divenire metafora della deriva mentale di Matty.
Il suo mondo è un inferno in terra nel quale si aggira come un novello "Cattivo Tenente", un peccatore alla disperata di redenzione. Il peccato vive nelle forme dell'eccesso totale, dato anche dalla promiscuità, come nella scena del menage lesbo che l'autore carica ai limiti del pornografico. Promiscuità sessuale come metafora della perdizione totale, di una vita dedita unicamente alla ricerca di quel piacere terreno che annichilisce ogni forma di umanità. Un mondo nero, quello nel quale si perde, primo significato del "blackout" del titolo: universo di tenebra che cinge i personaggi verso la bassezza.
Così come Matty, anche Mickey, che vive grazie al volto luciferino e all'espressività feroce del grande Dennis Hopper, ricerca disperatamente l'affermazione, con una voracità pari a quella dell'amico. Affermazione che ha la forma della mania della ripresa: la "magnifica ossessione" di riprendere il vero, di creare su schermo una realtà che sia pari a quella effettiva, di ricreare da zero un classico in modo ancora più vivo e vibrante, che si fa catarsi distruttiva nella scena dell'omicidio. E che trasforma lo sguardo dello spettatore frammentandolo in innumerevoli punti di vista, compreso quello della handycam con la quale Matty si confessa.
La negazione della salvezza per Matty, data dall'abbandono dell'amata Annie, si fa primo passo verso la distruzione. Persa la luce del futuro, si abbandona definitivamente al vizio, finchè per caso incontra un'altra Annie (Sarah Lassez); creatura quasi angelica nelle forme, purgata dalla sensualità anche materna della prima donna e ammantata in un'ingenuità giovanile quasi salvifica; un doppio che fa riecheggiare un richiamo forte al cinema di Hitchcock, quella "Donna che visse due volte" (1958) che qui diviene nodo centrale nella de-costruzione del protagonista.
Dopo l'incontro, la vita di Matty subisce uno stacco di 18 mesi, una virata verso il futuro che ha le forme del rumore video, un "rimosso", la negazione di qualcosa di essenziale che torna a perseguitare il personaggio, ora sulla via della "guarigione", secondo significato del "blackout". Un nuovo Matty, questa volta più propenso all'autoconservazione, cerca di rifarsi una vita con la bellissima Susan (Claudia Schiffer), donna "normale", estremo opposto dell'eccesso della prima Annie e il mondo nel quale si aggirava. Ma l'ossessione del passato è impossibile da fuggire: tornato in quella Miami del vizio, Matty ripiomba nell'alcool per toccare il fondo, in cerca del perduto amore, per cercare una salvezza che è tale solo ai suoi occhi.
La prima Annie riappare, questa volta ammantata di nero, solo per schernire l'ex amante, per bullarsi dello stato miserevole nel quale è scivolato. Toccato il fondo, a Matty non resta che confrontarsi con quel "rimosso", quel peccato che ha commesso ma non vuole ammettere e che per questo genera ossessione.
Dal video appare il reale: la video-ripresa si fa in ultimo messa in scena del vero, "snuff movie" con il quale Matty apprende il suo definitivo peccato, ossia l'uccisione della seconda Annie, in quell'atto doppio totale della prima, sulla quale ha riversato la rabbia per l'aborto e la sua mancata salvezza. La catarsi è furente, distruttiva: il cammino del peccatore ora è puro Inferno in Terra.
Rifiutato l'amore salvifico di Susan, quella normalità che ora non può accettare in quanto cosciente del proprio male, Matty si abbandona ad un mare nero come la pece, il mare del castigo, della morte, terzo significato del "blackout", che gli permette infine di trovare la pace.
Se la creazione di una simbologia chiara è ancora nelle corde di Ferrara, laddove la sua opera inciampa è nella creazione di una narrazione efficace. Troppo superficiale la caratterizzazione del personaggio di Matty, che non si scosta di un millimetro dal canone ferrariano e al quale, purtroppo, Matthew Modine non riesce a dare la giusta carica di negatività. La sua discesa agli inferi è troppo lineare, praticamente prevedibile sin dall'inizio. Laddove l'autore si discosta dal passato è solo nell'uso dell'autodistruzione come viatico per la redenzione, che tuttavia cozza con la poetica del passato poichè troppo scontata, troppo poco viscerale e "catartica", troppo simile alla tradizione del cinema americano che il grande regista sembrava un tempo rifuggire in favore di una poetica e di un etica personale e più vicina alla sensibilità europea.
Laddove gli script di St.John riuscivano a fondere efficacemente la descrizione dei personaggi e a rendere credibile e vivido il loro arco narrativo, la sceneggiatura ordita dallo stesso Ferrara, da Marla Henson (sua ex amante e fonte di ispirazione per il personaggio della prima Annie) e dello psicologo Chris Zoist (che poi collaborerà con l'autore anche in "New Rose Hotel", "Chelsea on the Rocks" e "Welcome to New York") risulta troppo scontata, finanche sensazionalista nella scelta di svelare l'omicidio solo nel finale, quasi come se la disanima dell'interiorità del personaggio fosse un thriller d'accatto.
Non mancano i luoghi comuni, come l'uso della pornografia e del sesso spinto come metafore del male, troppo "buonisti" per il cinema del regista newyorkese, che sebbene riescano bene nel creare un'atmosfera morbosa, risultano troppo basici per essere davvero scandalosi o efficaci, facendo mancare al tutto una vera carica viscerale
Resta comunque ottima la mano di Ferrara che da vita al sentimento del personaggio e alla sua psiche frantumata in modo efficace e vivido, con immagini al solito sfolgoranti
Nessun commento:
Posta un commento