di Steven Spielberg.
con: Eric Bana, Daniel Craig, Geoffrey Rush, Ciàran Hinds, Mathieu Kassovitz, Hanns Zischler, Mathieu Amalric, Ayelet Zurer, Michael Lonsdale, Valeria Bruni Tedeschi.
Drammatico/Storico
Usa, Francia, Canada 2005
La vendetta come sacra missione, la legge dell' "occhio per occhio, dente per dente" è, nella comunità ebraica, ancora oggi molto spesso un imperativo. Imperativo criticato dagli stessi appartenenti, consci della futilità del ripagare la violenza con la violenza, di perpetrare un castigo inutile come pura forma di riscatto.
Steven Spielberg non si è mai sbilanciato in critiche verso la propria comunità; unico tassello della sua filmografia a porre lo sguardo verso le proprie origini era "Schindler's List" , divenuto (anche giustamente) perfetto manifesto delle tragedie che colpiscono il popolo ebraico, di certo non una forma di catarsi verso i possibili limiti culturali del medesimo. Ciò fino al 2005, fino a "Munich", il suo film più spiazzante, la sua opera più cupa e disperata, un film agli antipodi della sua canonica produzione, anche considerando un altro film inusuale della sua carriera come "L'Impero del Sole". Un apologo morale ai limiti del j'accuse, che parte da un fatto storico preciso per divenire perfetta parabola universale, oltre che perfetto film intimista.
Alle olimpiadi di Monaco del 1972, durante la notte del 5 settembre, un commando di soldati dell'organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irrompe nel villaggio olimpico, uccide due atleti della delegazione israeliana e ne prende in ostaggio il resto. Dopo il fallimento delle operazioni di liberazione ad opera della polizia tedesca, l'intera squadra viene trucidata.
Come forma di ritorsione, il governo israeliano guidato da Golda Meir dà il via libera ad una serie di operazioni del Mossad volte ad individuare ed uccidere i mandanti dell'attentato e tutti i soggetti coinvolti o comunque collegati all'estremismo islamico; l'operazione viene battezzata "Ira di Dio" per sottolinearne la sacralità. In particolare, per eseguire l'omicidio di 11 sospettati, il Mossad assume un gruppo di mercenari; e nella ricostruzione di Spielberg, è il neo padre Avner (Eric Bana, perfetto nel ruolo), agente del Mossad licenziato ad hoc per evitare collegamenti, a guidare una squadra composta da freelance incaricata di decapitare il vertice di Settembre Nero.
"Munich" non è semplicemente una ricostruzione storica, nè un film sull'antisemitismo, tantomeno una semplice critica all'operato dello Stato di Israele nei fatti successivi all'attentato a Monaco; o meglio, è, sì, tutto questo, ma anche un film sull'empatia, un apologo morale ma mai moraleggiante sul cocectto di tolleranza, fratellanza e sull'importanza della figura paterna.
La "sacra vendetta" viene spogliata di ogni gloria, ma anche di ogni retorica; Spielberg dà per assodato che lo spettatore conosca i limiti insiti nel concetto di ritorsione e decide di concentrarsi sulle emozioni provate dal suo gruppo di personaggi, in particolare su quello di Avner.
Il sentimento amoroso, la paternità come protezione, viene a lui negata a causa dell'inizio delle operazioni; una delle prime vittime vive con la figlia, per questo decide di rinviarne l'esecuzione; la comunanza sentimentale porta ad una forma di empatia: l' "altro" non può di conseguenza essere visto come estraneo, come nemico distante sul piano umano ed ideologico.
Cosa che invece non accade ad Atene, dove il leader del gruppo palestinese che si trova (per caso o per macchinazione?) a condividere la casa sicura viene ucciso nello scontro successivo ad un dialogo nel quale i due non avevano trovato un terreno comune di confronto. Il nucleo familiare, l'importanza dello stesso ed il ruolo del padre, divengono così comune denominatore per accomunare i popoli, tutti figli dello stesso Dio, tutti padri di figli nati uguali.
Avner è di fatto un uomo privo di una figura paterna, che trova nel misterioso "Papa" (Michael Lonsdale) un riferimento solo temporaneo, ma che in quei valori da questi tanto esibiti riesce ad identificarsi. E per quanto possa suonare melenso, Spielberg riesce a convogliare l'idea e la morale annessa in modo asciutto, per questo estremamente convincente.
Contrapposta all'empatia, la vendetta e con essa la violenza, che per una volta Spielberg non cela, anzi mostra in tutta la sua carica disturbante, con spruzzi di sangue ad ogni uccisione, purgando l'atto da ogni possibile risvolto catartico; la violenza è pura distruzione, annientamento non di un obbiettivo, ma di una persona vera e propria, in grado di provare paura e chiedere pietà al proprio assalitore. L'atto dell'uccisione viene spesso dilatato, portato verso un piano temporale più esteso, che ne sottolinea la brutalità, come con il primo omicidio o con l'uccisione dell'assassina belga: la morte è furto di vita, che scivola via dalle vittime in modo doloroso, tra lacrime e fiotti di sangue che lentamente fuoriescono dal corpo, come a sottolineare l'anima che se ne distacca.
Da qui l'inutilità dell'atto vendicativo: per ben due volte Avner chiede al suo referente se le proprie azioni servono a qualcosa ed in entrambi i casi la risposta è evasiva; come le unghie che ricrescono, anche i vertici di Settembre Nero e delle altre organizzazioni connesse sono pronti a sostituire i propri capi con altri più feroci e privi di scrupoli. Non c'è nessuna catarsi neanche nell'atto vendicativo, oltre che nell'omicidio in sè; tant'è che nel climax Avner non ha una realizzazione, già posseduta sin dalle prime battute della storia, quanto il raggiungimento di una forma di comunanza definitiva verso le vittime di Monaco, ora uguali anche a coloro che ne hanno ordinato o hanno comunque partecipato alla loro esecuzione.
La fotografia del sempre ottimo Janusz Kamiski spoglia le immagini di ogni colore e le immerge in luci contrastate; le ombre divorano la luce allo stesso modo in cui il sentimento negativo divora l'anima di Avner e dei suoi compagni. Mano a mano che la storia procede e la loro paranoia strisciante si fa più marcata, anche le immagini si fanno più cupe e fredde, forma espressionista di quel nugolo di emozioni vere protagoniste del film.
Mentre la mano di Spielberg è sicurissima, imprime il giusto ritmo ad ogni sequenza ed al racconto in generale, sapendo sempre quando accelerare e quando rallentare, riuscendo sempre a tenere alta la tensione.
Una negatività, quella di "Munich", totale, che non fa sconti, nè si arrocca in un finale consolatorio; per quanto il valore familiare sia importante, Spielberg decide di chiudere la storia con un finale aperto, con una nota amara di definitiva realizzazione dell'inutilità della violenza e, di conseguenza, di tutto il dolore causato.
Il coraggio qui mostrato è più unico che raro: se persino in "Schindler's List" il Re Mida di Hollywood cadeva talvolta nelle trappole più ovvie, in "Munich" le evita tutte, creando la sua opera più compatta e, di conseguenza, coraggiosa, un capolavoro di stile e contenuti che pur non essendo rappresentativo del suo cinema, ne è al contempo uno degli apici indiscussi.
Uno degli Spielberg più sottovalutati... anche da me, in verità, che quando parlo del regista me lo scorso sempre :D
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