Hélas pur moi
di Jean-Luc Godard.
con: Gerard Depardieu, Laurence Masliah, Bernard Valley, Jean-Louis Loca, Benjamin Kraatz.
Francia, Svizzera 1993
GODard. DepaDIEU. Un incontro scritto nel nome, nel destino (sacro?), quello tra il grande cineasta ed il divo francese. Che arriva però solo nel 1992, con "Ahimè!", adattamento molto libero (e come potrebbe essere altrimenti con Godard?) dell' "Amphytrion 38" di Giroudoux, rilettura moderna, postmoderna e post-postmoderna dell'opera di Plauto.
Un film che porta in scena, come "Nouvelle Vague", la storia di un doppio, infarcendola di citazioni a raffica, che cerca di riflettere sul senso del sacro prima ancora che sul concetto di identità, sia personale che filmica, ma che riesce solo in parte: come molto dell'ultimo cinema di Godard è a tratti troppo chiuso in sè e troppo compiaciuto per comunicare davvero qualcosa.
Un dio scende sulla Terra, forse Il Dio, forse uno dei tanti. Si incarna in un uomo per avere un rapporto con una donna e poi scompare. Ma dare una forma al divino significa limitarlo, circoscriverlo. Se è vero che oltre il 50% della materia di cui è fatto l'Universo è invisibile, allora renderlo visibile equivale a togliergli sostanza.
Allo stesso modo un dio che si fa uomo non è più divino. E l'Uomo, che da sempre cerca il divino, non può che perdersi nella contemplazione del mistero, guardarlo senza comprenderlo anche quando lo ha al fianco. La scienza, la filosofia e la poesia sono strumenti utili solo alla contemplazione.
Persino le corrispondenze tra gesti sembrano futili: se abbracciare il proprio amato ci porta in una posizione simile a quella della preghiera, allora la preghiera è davvero atto d'amore verso qualcuno? Non è dato saperlo, su tutto vige il silenzio di Dio, anche quando è uomo e siede accanto a chi si pone le domande.
L'atto d'amore diviene così fine esistenziale. Ed oltre quello non c'è nulla: non ci sono personaggi nè riflessioni ulteriori, se non immagini e storie che durano il tempo di un'inquadratura. Se l'invenzione delle VHS permette al cinema di avere una seconda vita, è il cinema stesso a voler negare questa ripetizione eterna, chiudendo in partenza ogni discorso possibile.
Con la conseguenza, tuttavia, che la riflessione si fa sin troppo astratta, come la sostanza divina, sino a sfociare nell'astruso. Impossibile seguire le elucubrazioni di Godard, che si affidano, ora più che mai, totalmente alle citazioni colte, alienando definitivamente ogni forma di recepimento.
Tutto diviene così "passato": sia il racconto, i cui frammenti vengono introdotti da trasfocature flou, sia il discorso. Allo stesso modo in cui il divino perde parte di sè quando diviene carne, la Verità, come sempre per Godard, perde parte di sè stessa quando fissata prima in concetti, poi in parole.
Ciò che resta è l'immagine, la bellezza estetica dell'inquadratura, la contemplazione dei volti degli attori e degli ambienti, fissati in frame quasi sempre immobili, dove la mancanza di movimento forse vuole indicare la mancanza di evoluzione discorsiva e del passaggio del tempo. Anche il passato, dunque, prima di scomparire, si fa presente e solo la percezione dell'attimo finisce per contare.
Discorso sin troppo compiaciuto, per quanto interessante, quello di Godard, che si ora come non mai si perde tra le pieghe e le piaghe del medesimo. Non come in "Re Lear", poichè qui l'ispirazione è forte. Ma proprio come in "Re Lear" senza che sia davvero possibile riflettere assieme all'autore.
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