di Andrzej Zulawski.
con: Andrzej Seweryn, Jerzy Trela, Grzyna Dylag, Waldemar Kownzki, Iwona Bielska, Jerzy Gralek, Elzibieta Karkoszka, Andrzej Frycz, Leszek Dlugosz, Krystyna Janada, Andrzej Zulawski.
Fantascienza
Polonia, 1977-1988
---CONTIENE SPOILER---
Se "Sul Globo d'Argento" fosse stato completato nel 1977, avrebbe soffiato a "Guerre Stellari" e forse finanche a "2001: Odissea nello Spazio" il titolo di pellicola Sci-Fi più rivoluzionaria di sempre. Allo stesso modo, avrebbe sottratto a "Cannibal Holocaust" il primato nell'uso della tecnica del found-footage a fini narrativi. Avrebbe di certo anticipato la deriva ultra-visionaria della fantascienza d'autore del "Dune" di Lynch e sottratto a "Solaris" e "Metropolis" il primato di pellicola di fantascienza europea più importante mai concepita.
Purtroppo così non è stato e, ad oggi, il capolavoro di Zulawski è un'opera sita ai margini del lost-medium: visto di sfuggita in sala e in qualche sparuto passaggio sulle tv satellitari, dopo essere stato presentato a Cannes nel 1988, è ad oggi impossibile da reperire sul mercato home-video e non viene solitamente proiettato ai festival di fantascienza, sia maggiori che minori. Per poterla visionare è quindi d'obbligo ricorrere al sotto-mercato dello streaming illegale e anche lì le cose non migliorano, visto che è possibile reperire solo sottotitoli in inglese, pur basati sulla traduzione fatta dallo stesso Zulawski dei dialoghi originali.
Definire tutto ciò un peccato è riduttivo. Questa è una tragedia vera e propria, un crimine contro l'opera e il suo autore, ma in primis verso il pubblico, privato della fruibilità di un'esperiena visiva, intellettiva ed emotiva che ha davvero pochi eguali.
Per comprendere appieno questo caos, occorre come di solito tornare indietro nel tempo e scandagliare le ragioni che lo hanno generato.
E' il 1972 e Zulawski ha appena terminato il suo secondo film, "Diabel", che gli porta subito l'ositilità delle autorità polacche, le quali chiudono il film in un vero e proprio limbo distributivo che durerà quasi 18 anni. Per evitare ritorsioni, il grande artista fugge letteralmente in Francia, dove l'ambiente cinematografico lo accoglie calorosamente e qui riesce a dirigere "L'Importante è Amare", che gli dona notorietà a livello internazionale.
Notorietà che ne lava anche le "colpe" dinanzi al governo polacco, che, capendo di avere tra le mani un talento da sfruttare per il fasto nazionale, lo riaccoglie a braccia aperte e gli da praticamente carta bianca sulla sua prossima produzione. Ciò gli permette di coronare un sogno decisamente ambizioso, ossia tradurre in immagini la storia della "Trilogia Lunare", scritta dal suo avo Jerzy Zulawski e pubblicata per la prima volta a partire dal 1901, il cui primo libro vanta il record di primo romanzo di fantascienza in lingua polacca, nonché quello di essere uno dei primi scritti ad immaginare una civiltà umana sulla luna, assieme al coevo "I primi uomini sulla luna" di H.G. Welles.
Con un grosso budget a disposizione, Zulawski ed i suoi collaboratori creano costumi elaborati e sfruttano al meglio le location per creare un vero e proprio "piccolo kolossal" per restituire al meglio la grandiosità dei libri, ora condensati in un unico racconto, nonché per rendere giustizia alle tematiche affrontate. Solo per poi essere castrati.
Il nuovo ministro della cultura, ansioso di farsi un nome nell'ambiente e di provare la propria fedeltà al partito comunista, vede di cattivo occhio questa stravagante produzione. La goccia che fa traboccare il vaso è anche la più scontata, ossia la tematica principale, il concetto di "libertà" dell'Uomo, intesa sia in senso universale che particolare. Concetto che ovviamente mal si attaglia allo stile di vita sovietico e che rende l'opera pericolosa. Usando il grosso costo come scusa, adducendo la volontà di recuperare i capitali investiti, il ministero chiude la produzione, oramai giunta a circa l'80% delle riprese. Non ci vuole certo un genio per capire che è impossibile recuperare anche solo mezzo zloty troncando la produzione e impedendo la distribuzione del film in toto. Scusa vera e propria, ça va sans dire, che travolge autore e collaboratori, i quali arrivano finanche ad occultare alcuni costumi ed oggetti di scena nella speranza che la produzione possa ripartire al più presto. Cosa che non avverrà mai.
Si arriva così alla seconda metà degli anni '80. Il processo di democraticizzazzione della Polonia avviato con la fondazione di Solidarność e la fama acquisita da Zulawski nel corso del tempo portano ad un miracolo insperato: il ministero revoca la censura di "Sul Globo d'Argento" e la produzione può essere completata. Questo in teoria, perché nel frattempo gli attori sono invecchiati e le location hanno subito dei cambiamenti radicali, rendendole inutilizzabili. Il film, nelle parole del suo stesso autore, è stato irrimediabilmente "assassinato": un quinto del racconto manca alla narrazione e non può trovare forma alcuna.
Il che non impedisce a Zulawski di creare lo stesso un montato di quanto già girato. Utilizzando una tecnica "artigianale" e scarna, decide di ovviare alle mancanze usando la sua voce narrante, che spiega nell'incipit il "caso" del film e descrive le scene mancanti sulle immagini delle strade di Varsavia, nonché di quei luoghi che avrebbero dovuto ospitare le riprese macnanti all'appello.
Il risultato è un film monco, un "frammento" della visione come lui stesso lo ha definito. Ma un frammento dal quale traspare tutta la propria visione, un'opera estrema, estremamente anticonvenzionale, geniale e ai limiti del trascendente, dalle immagini indicibilmente espressive e ipnotiche.
Può l'essere umano fuggire dai propri errori? Tale è il quesito alla base dei romanzi, che Zulawski rielabora fondendolo inscindibilmente alle proprie ossessioni e alla propria poetica.
Un gruppo di astronauti abbandona la Terra e arriva su di un pianeta ignoto (la luna, nei romanzi), dove cerca di creare una nuova società umana che sia scevra dagli sbagli di quella precedente. Morto un primo membro del gruppo durante la fase dell'atterragio ed un secondo durante le prime fasi di esplorazione, la nuova umanità è data da tre figure progenitrici: Martha (Iwona Bielska), Jerzy (Jerzy Trela) e Tomasz (Leszek Dlugosz). Tomasz e Martha hanno una progenie, mentre Jerzy, a seguito della morte dei due, è l'ultimo membro della vecchia umanità.
La nuova umanità ricade nelle stesse aberrazioni della prima. Il primogenito, Tomasz II (Andrzej Frycz), diventa un capo tribù dai poteri assoluti, venerato come una divinità incarnata. E sopra di lui, Jerzy, oramai anziano, viene trasfigurato nella figura di un dio creatore, un essere sovraumano giunto dal cielo che ha dato vita da solo alla razza umana e che ora viene suo malgrado venerato come tale.
Non c'è una presa di coscienza verso il divino. Non c'è un punto zero nella storia della (nuova) umanità nel quale gli uomini decidono volontariamente di venerare il trascendente. Ciò avviene in modo naturale, automatico e senza apparente necessità. Come il male in "Diabel", anche la coscienza religiosa, per Zulawski, è una cifra oscura del tutto connaturata alla natura umana, dal quale l'Uomo non può distaccarsi, neanche volontariamente.
Questa prima parte è anche la più visionaria; la differenza fondamentale con la seconda è sita nell'uso della soggettiva, del punto di vista prevalente di Jerzy o di chi al suo posto reclama il meccanismo di registrazione. Gli sguardi in macchina dei personaggi, solitamente utilizzati per smascherare l'artificiosità della messa in scena, qui hanno l'effetto contrario e rendono la visione più verosimile, come se si stesse assistendo ad un documentario vero e proprio; sensazione acuita dai dialoghi, che come da tradizione nel cinema di Zulawski sono flussi di coscienza talvolta privi di vero significato, per questo mai artificiosi.
Con un flashforward di qualche secolo, incontriamo Marek (Andrzej Seweryn), un nuovo cosmonauta che atterra sullo strano pianeta dopo che per generazioni non ci sono stati contatti con il resto dell'umanità. Avevamo lasciato i neo-umani in disfatta: la loro impresa di colonizzare le terre al di là del mare è stata una tragedia a causa del contatto con la civiltà degli Shern ("Szern" nella nomenclatura originale), indigeni del pianeta dall'aspetto corvino. La civiltà, nel frattempo, è mutata sino a divenire una teocrazia che ha profetizzato l'arrivo di un salvatore celeste che avrebbe condotto gli uomini alla vittoria contro il nemico. E Marek viene accolto come tale.
La società è cambiata, si è stratificata passando dalla venerazione di un dio creatore e di un eroe-patriarca alla leggenda di un pianeta (la Terra) e di un salvatore. E' sorta anche una classe sacerdotale, i cui membri sono definiti "attori", ossia persone che imitano ciò che venerano, che ne sono una pura rappresentazione e, ancora prima, un'interpretazione, la quale, volontariamente o meno, ha finito per modificare il significato originario del sacro. Ed è questo l'affondo più feroce all'isitituzione religiosa: se già la religione in sé stessa è rielaborazione superstiziosa degli eventi, l'istituzionalizzazione della religione è una forma di perversione fatta e finita di quel poco di verità che vi è alla sua base.
La santificazione di Marek lo porta alla follia, la venerazione ne esalta l'ego sino alle estreme conseguenze: i falsi profeti sono creati dalla superstizione, il loro ruolo di guida designata li porta alla pazzia. E dopo essere stato sfruttato, viene distrutto, immolato come un cristo senza dio poiché la sua venuta minaccia il potere costituito. Ma la sua morte non insegna davvero nulla, non porta ad una redenzione e al perdono, sono ad un ulteriore forma di vacua idolatria.
Ma chi sono davvero gli shern? Grazie ad un delirante confronto, si scopre come queste creature siano una sorta di antitesi degli umani, ossia egli essere totalmente mossi dalla ragione. Il che non li rende migliori: a partire dalla loro forma bestiale, Zulawski sottolinea come la totale sottomissione all'intelletto puro non sia un'alternativa praticabile per evitare la barbarie, posizione informata dall'esperienza con la dittatura sovietica e il suo stretto razionalismo che ha finito per creare mostri uguali se non peggiori di quelli del fanatismo. Tant'è che in una scena mancante, fa persino ammettere a queste creature di puro intelletto come l'esistenza di un "programmatore" supremo, di un motore che muove le intelligenze e gli animi ai primi passi, sia comunque essenziale, sia su di un piano strettamente fattuale che più astrattamente gnoseologico.
La terza tribù è invece quella dedita alle passioni corporali, ossia la vecchia Terra. Corrotta da un'umanità allo sbando, la vecchia società umana è oramai marcescente. I vecchi abitanti, scienziati e uomini di cultura, sono ridotti ad ombre di ciò che erano, mentre i nuovi umani sono barbari tossicodipendenti regrediti ad uno stadio para-tribale persino più arretrato di coloro i quali vivono sulla colonia aliena.
Qui scopriamo come Marek sia stato in realtà manipolato dalla compagna e dal suo amante per lasciare il pianeta e permettere loro di copulare. L'abbandono ai sensi è anch'essa forma di autodistruzione che ha finito per consumare un'intera specie e la storia sembra ora pronta a ripetersi altrove.
Qual'è l'alternativa alla distruzione della società umana? Come arginare gli impulsi distruttivi degli uomini? Zulawski non ha la pretesa di dirlo, limitandosi ad indicare gli errori, lasciando che sia lo spettatore a decidere per se. Persino la soluzione più ovvia, ossia l'ateismo, viene sbertucciata come ennesima forma di oscurantismo, oppressione di una fazione su di un'altra che non tiene conto della realtà ma che predilige un'interpretazione coatta e mistificatoria della stessa.
Le uniche certezze sono quelle estetiche. Al di là dell'ottimo lavoro su costumi e scenografie, trionfa lo stile di messa in scena, con una camera a mano dalla potenza inusitata. Ogni movimento è programmato al centimetro per creare immagini pittoriche, dinamiche e al contempo incredibilmente plastiche. La maestria di Zulawski raggiunge qui il culmine, scatenando su schermo una potenza a tratti mozzafiato, prova del suo incontenibile talento.
"Sul Globo d'Argento" riesce così a trascendere la forma di puro cinema per farsi arte a tutto tondo. Un'esperienza onirica e visionaria che colpisce sensi e mente e non fa sconti allo spettatore, mettendolo davanti ai suoi limiti sia come fruitore che come essere vivente. Un'opera potente, trabordante, semplicemente magnifica.
Le immagini sono dei quadri
RispondiEliminagrazie per avermelo introdotto^^