mercoledì 15 dicembre 2021

La Voce della Luna

di Federico Fellini.

con: Roberto Benigni, Paolo Villaggio, Nadia Ottaviani, Marisa Tomasi, Sim, Angelo Orlando, Nigel Harris, Dario Ghirardi, Vito.

Italia, Francia 1990















Presentato al Festival di Cannes del 1990, "La Voce della Luna" venne ampiamente fischiato (con sommo sconcerto di David Lynch, lì per presentare il futuro vincitore "Cuore Selvaggio"). La critica fu talvolta feroce e quello che, purtroppo, divenne il film testamento di Fellini è ancora oggi ricordato come una delle sue prove più incolori. Il che è anche vero: si tratta di un'opera che vive di alti e bassi, di ottime intuizioni e sequenze irresistibili affiancate ad altre abbozzate o poco riuscite. Proprio per questo è tutto sommato sbagliato bocciare in toto un film a tratti decisamente poetico.


Ivo Salvini (Benigni) è un giovane da poco dimesso da un ospedale psichiatrico. Sente le voci, voci che viaggiano nel vento e vengono dai pozzi, dai quali è attratto, alla ricerca, forse, di una verità ulteriore, più profonda, che va al di là del visibile.
Il prefetto Gonnella (Villaggio) è un anziano, ex uomo di potere, ora afflitto da paranoia e da un'innata paura della morte, materializzata come paura degli anziani.
Ivo è un giovane Fellini, che vive in un mondo poetico, del tutto interiore, che proietta in quello esterno per abbellirlo, elevarlo dalla bruttura della modernità (la fabbrica, la chiesa dall'orrenda architettura moderna, gli onnipresenti cartelloni pubblicitari) verso un immaginario salvifico. Allo stesso modo, Gonnella è il vecchio Fellini, perso nella contemplazione di un altro mondo immaginario, questa volta orrendo, pronto ad inghiottirlo e che non gli riconosce mai la dovuta dignità. Entrambi sono innamorati, Gonnella di sua moglie, Ivo della bella Aldina, la luna, l'oggetto del desiderio inarrivabile, modellato come una giovane e bella Giulietta Masina. 
Benigni, per una volta diretto da qualcuno, abbandona gli istrionismi e concede una prova equilibrata, quasi trattenuta (come già fece in "Chiedo Asilo" di Ferreri), oggi ancora più preziosa visto la svolta gigionesca che prenderà la sua persona negli anni. Villaggio, invece, mette il suo istrionismo al servizio del personaggio, creando una maschera tragica di rara bellezza, giustamente premiata con il David.


Nel peregrinare di Ivo per le campagne ed il paesino, Fellini intesse una riflessione che continua i discorsi avviati negli ultimi anni della sua carriera. Il cambiamento culturale dato dalla televisione trova spazio anche nel finale, con la luna, ossia l'oggetto impossibile, che non da risposte e passa alla pubblicità; ma lo spirito dei tempi più forte si ha nella scena della discoteca: mentre una gioventù post-punk e quasi neo-goth balla sulle note di "The Way you make me feel" di Michael Jackson, il giovane Fellini si perde tra di loro, contemplando ed esaltando la bellezza delle donne, mentre il vecchio Fellini dapprima si scontra con il nuovo, per poi abbandonarsi alla fantasia, ad un ultimo ed emozionante walzer con l'amore eterno della sua vita.


Le visioni felliniane ritornano puntuali, ma non tutte sono all'altezza. Di sicuro la più riuscita è quella dell'insaziabile moglie che porta il povero ed indifeso marito a rifugiarsi sul tetto, vero e proprio omaggio alla donna come entità totalizzante. Torna la rielaborazione del passato, con l'episodio sull'infanzia di Ivo, il cui soprannome "Pinocchio" preconizza il doppio futuro di Benigno con il romanzo di Collodi; ma questo "amarcord", per forza di cose, non ha la forza o l'incisività di quelli del passato.
In generale, è proprio l'inconsistenza e l'altalenanza ad impedire a questa fantasmagoria di brillare davvero. Il forte uso dell'improvvisazione, con una sceneggiatura che era puro canovaccio, ha portato ad una forma di messa in scena libera da costringimenti, ma del tutto incapace di restituire la poetica di Fellini, la quale si ritrova ancora, ma che non ha né la forza immaginifica di un "Satyricon", nè quella distruttiva di un "Casanova".
La forza visionaria delle immagini, per lo meno, è intatta. L'occhio dell'artista è sempre vivo, pronto a cogliere la forma migliore di corpi e ambienti in movimento e ritrarli alla perfezione, anche se talvolta mancano immagini davvero potenti e memorabili.


"La Voce della Luna" finisce così per essere il lascito di Fellini, una fantasmogoria ultima e più piccola rispetto al passato, per una carriera che finisce in un sussurro, flebile eppure curioso. Un'opera che riflette su sé stessa così come Fellini riflette su tutto ciò che ha detto e fatto e che giunge ad un'unica e ultima conclusione, vero e proprio epitaffio di incalcolabile valore e struggente attualità: a volte è meglio fare silenzio, per meglio sentire ciò che ci circonda.

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