mercoledì 19 marzo 2025

The Electric State

di Joe & Anthony Russo.

con: Millie Bobby Brown, Chris Pratt, Stanley Tucci, Giancarlo Esposito, Woody Norman, Ke Huy Quan, Woody Harrelson, Jason Alexander, Anthony Mackie.

Fantastico/Avventura

Usa 2025
















---CONTIENE SPOILER---

Con circa 320 milioni di dollari di budget, The Electric State è la produzione Netflix più costosa di sempre. Un budget da kolossal da sala che invece è stato dato ad un prodotto riversato direttamente nella rete dello streaming per chissà per quale ragione. 
Perché, a differenza del quasi coevo Uno Rosso, la megaproduzione della N rossa ha dalla sua dei valori produttivi che quasi ne giustificano la spesa astronomica: questo bizzarro mondo retrofuturistico, uscito dalla penna di Simon Stålenhag, sul piano visivo riesce davvero a convincere. Peccato però che per il resto l'exploit dei fratelli Russo faccia acqua da tutte le parti.


Sono gli anni '90 di un mondo alternativo. Walt Disney ha praticamente inventato dei robot tuttofare, i quali nel corso degli anni si sono evoluti sino all'autocoscienza. La guerra con gli umani, ovviamente, non è tardata ad arrivare. 
In questo contesto, il giovane genio Christopher (Woody Norman) sostiene un test che ne qualifica il QI come fuori dall'ordinario. Anni dopo, a guerra finita, sua sorella Michelle (Millie Bobby Brown) vive i rottami di una vita segnata dal lutto per la perdita dell'intera famiglia, Questo finché uno strano robot non le si presenta in casa dicendo di essere suo fratello. I due iniziano così un viaggio verso la zona nella quale gli automi sono stati confinati, aiutati dal riluttante contrabbandiere Keats (Chris Pratt).



Uno script che (probabilmente come il romanzo che ne è alla base) presenta tutti i luoghi comuni e le annesse ingenuità della tipica narrazione sullo scontro tra uomo e macchina, con in più alcune di inedite.
Ci si chiede come sempre perché gli esseri umani non si limitino a "spegnere" i robot, visto che in questo caso non sono che delle semplici mascotte semoventi. Perché, a guerra, finita, decidano di confinarli tagliando fuori dal mondo una parte degli Stati Uniti, quando ben avrebbero potuto rottamarli. Perché la superiorità bellica umana passi attraverso l'uso dei droni, praticamente degli androidi pilotati da remoto con un visore VR, quando avrebbero potuto imbracciare le stesse armi con le proprie braccia.
Scenario poco credibile che fa il paio con una costruzione della storia che procede di forzatura in forzatura. Si parte con Michelle che impiega letteralmente tre secondi per convincersi che l'automa che le ha invaso caso sia suo fratello, nonostante questi non riesca neanche a parlare. Si continua con un Keats che si unisce al duo praticamente perché si e con una protagonista che prima ammette di non saper guidare un'automobile, ma poi non ha problemi a schiantare un bulldozer contro i nemici. Si arriva ad un finale dove per aumentare il tasso di drammaticità si decide come l'unica soluzione sia quella di uccidere il vero corpo di Christopher, quando sarebbe bastato estromettere il vero villain Ethan Skate, sorta di fusione tra Jeff Bezos e Mark Zuckenberg fautore del sistema di controllo VR del quale il cervello di Christopher è praticamente un mainframe.


Qualche spunto sci-fi intrigante c'è, come appunto l'idea di un cervello umano usato come strumento computazionale e persino l'uso dei droni-soldato, ma il tutto è annacquato da una serie di banalità disarmanti. 
C'è il trito e ritrito discorso su come i veri umani siano coloro che provano empatia verso il prossimo, c'è l'atto d'accusa verso un'umanità che predilige dichiarare guerra ad una minoranza piuttosto che riconoscerne i diritti, ma senza che gli automi diventino mai davvero la metafora di qualcosa di concreto nonostante siano confinati in un deserto dietro un muro (manco i Russo ci credono davvero, evidentemente), c'è persino un timidissimo accenno a come l'abuso della realtà virtuale porti alla disintegrazione dei rapporti umani, ma nulla diventa mai davvero il focus di un film che vuole essere principalmente un'avventura escapista d'antan, da cui il setting ucronico e timidamente nostalgico. Tanto che a tratti sembra di vedere una sorta di Ready Player One che però non crede davvero in quello che fa e che dice. 
Anche nella costruzione del semplice racconto avventuroso, The Electric State fallisce proponendo uno script abbozzato, che procede di spiegazione in spiegazione, con un nuovo personaggio che fa procedere l'esilissima trama ad ogni fermata, in una formula artificiosa e prevedibile.



Il colpo di grazia definitivo lo infligge la direzione dei Russo. Fortunatamente, i tempi di The Grey Man e del dittico su Thanos sono lontani e i due prediligono una messa in scena che non sia fatta solo in postproduzione. Ma la loro regia manca costantemente di tensione e le scene clou proseguono senza che ci siano brividi o vero coinvolgimento: tutto scorre in modo freddo a causa di una costruzione che manca di mordente.
Questo anche a causa dell'estrema blandezza dei personaggi. La Michelle di Millie Bobby Brown è l'abbozzo di uno stereotipo sulla Gen X e, spiace dirlo, lei è fuori parte, visto che pur ad appena 20 anni è fisicamente improbabile come adolescente. Keats è praticamente uno Star Lord che come compagno di avventure ha un robottino anziché un cyberprocione umanoide. Skate è la quintessenza dell'imprenditore malvagio, mentre l'integerrimo sceriffo Bradbury di Giancarlo Espostio il classico gerarca di ferro ma dall'indole incorruttibile, praticamente una parata di figure viste ovunque. E persino quel piccolo automa giallo che si esprime solo tramite frasi pre-registrate non può che riportare alla mente Bumblebee, facendo salire il tasso di vecchiume alle stelle.
Quanto alla spettacolarità, la situazione è complicata. Perché gli effetti speciali risultano davvero convincenti in ogni singola inquadratura, ma le scene d'azione sono sempre rigorosamente dirette con il pilota automatico: non c'è inventiva, non c'è verve, tutto è freddo, quindi nulla risalta, nulla è davvero spettacolare.



The Electric State è così un compitino ben fatto sulla superficie, che tuttavia cela un'incredibile mancanza di idee nel profondo. Un blockbuster che di grande ha praticamente solo i numeri e dove tutto, ma proprio tutto sa di già visto.

venerdì 14 marzo 2025

La Conversazione

The Conversation

di Francis Ford Coppola.

con: Gene Hackman, John Cazale,  Harrison Ford, Cindy Williams, Allen Garfield, Frederic Forrest, Michael Higgins, Teri Garr, Elizabeth MacRae, Robert Duvall.

Drammatico/Thriller

Usa 1974













L'arrivo in sala dell'edizione rimasterizzata de La Conversazione è purtroppo coinciso con la morte di Gene Hackman, le cui tragiche circostanze la rendono ancora più dolorosa. E' però in senso lato una benedizione ricordare la sua memoria con una delle sue performance più solide, una di quelle forse meno citate quando si parla di lui, visto che ai primi posti figurano sempre Il Braccio Violento della Legge e Gli Spietati; ma è di certo nel modo in cui caratterizza Harry Caul che tutto il talento del compianto attore riesce a risaltare, anche se in modo estremamente sottile.



Una pellicola, quella di Coppola, che anch'essa non viene solitamente citata tra le sue opere migliori, venendo sempre surclassata, nella memoria collettiva dal coevo Il Padrino- Parte II, oltre che dai cultissimi Apocaplypse Now e Dracula di Bram Stoker, ma che rappresenta una delle prove più fulgide anche del suo di talento.
Un film che nasce da necessità estrinseche: sono i primi anni '70 e lo scandalo Watergate è lì lì per scoppiare. La diffidenza verso il governo dell'amministrazione Nixon è forte e il cittadino si ritrova a fare i conti con un potere statale che per tutelarsi non esita ad usare la violenza spicciola o anche a  violare la privacy dei singoli, in azioni reminiscenti di quei totalitarismi europei che sembravano aboliti, di sicuro non degne di uno stato di diritto e di una democrazia. 
Quella dell'essere spiato diventa una paura serpeggiante nella società, visto il clima rovente del post-1968, situazione che sempre in quegli anni porta Sam Peckinpah a dirigere il suo Killer Elite e il duo Robert Redford-Sydney Pollack e creare I Tre Giorni del Condor.
Per dare corpo a tali paure, Coppola decide di creare un piccolo film tutto basato sui personaggi. Un film che di certo non avrebbe contato scene spettacolari e che quindi difficilmente uno studio gli avrebbe prodotto. Riesce però a spuntarla con la Paramount quando questa decide di affidargli la regia del sequel de Il Padrino dopo il suo iniziale rifiuto. Eseguiti gli obblighi con il piccolo kolossal, il grande regista ha così mano libera per plasmare un'opera di certo non meno ambiziosa. E il risultato finisce per pagare: La Conversazione non solo è un capolavoro, ma nel 1974 gli è anche valsa la Palma d'Oro a Cannes.


Harry Caul (Hackman) è un affermato esperto di intecettazzioni. Il suo ultimo incarico, affidatagli da un misterioso imprenditore per il tramite di un sinistro intermediario (Harrison Ford) lo ha portato a spiare una coppietta (Cindy Williams e Frederic Forrest). Tuttavia, già quando il mandante inizia ad evitare di incontrarlo, Caul inizia a sospettare come sotto ci sia una storia decisamente più complessa.



Tutti possiamo essere intercettati. Non esiste privacy. Ovunque ci troviamo, sia nella solitudine della nostra abitazione che in una piazza gremita di gente, qualcuno può udire le nostre parole. Se già il pensiero che un organismo statale possa intromettersi nella vita privata è scioccante, ancora più destabilizzante è sapere che ad intromettersi possa essere un privato, ossia chiunque abbia i soldi per ingaggiare un intercettatore.
Caul alla fine non è che un mercenario, un uomo che per denaro distrugge vite, tanto che il suo passato è macchiato del sangue di gente anche innocente, da cui lo stress che affronta nel nuovo lavoro.
Ma La Conversazione non è soltanto un'opera che scandaglia la sensazione della paranoia, quanto in primis un piccolo saggio sulla solitudine, cucito letteralmente addosso al suo protagonista.
Tutta la prima parte è rivolta alla sua descrizione: un uomo che vive isolato in un guscio, una tana interiore simboleggiata dal suo appartamento da scapolo, dal quale si rifugia dal mondo esterno. Un solitario, forse stanco, forse semplicemente disilluso, la cui melanconia è magnificamente sottolineata dalle note di David Shire (cognato di Coppola).
Caul ha una relazione con una giovane donna, la quale ignora tutto di lui. Ha un amico, forse, solo nel collega Stan (il sempre ottimo John Cazale, che anche qui riesce a brillare nonostante lo scarno screen-time). Per il resto, è un uomo che ha paura di esporsi, paura di mostrare la sua umanità al prossimo proprio perché sa che essa può essere oggetto di ricatto.


Quando tenta di aprirsi, nella scena della seduzione con la compianta Teri Garr, Coppola sottolinea le sue frasi con uno splendido movimento di macchina ripetuto tre volte, tre campanelli d'allarme verso un errore che sta per commettere, come rivelerà qualche minuto dopo. Quando qualcuno riesce a violare il sancta sanctorum della sua privacy, nella scena del regalo di compleanno, Coppola lo guarda da lontano, con campi lunghi e panoramiche, praticamente le inquadrature principali usate nel suo appartamento, simbolo del suo distacco. Quando Caul decide di confessarsi, di rivelare a qualcuno qualcosa di se stesso, lo fa solo in sogno, cercando di connettersi con quella che ritiene una sua vittima, in una sequenza onirica nella quale Coppola inizia a sperimentare una messa in scena barocca.
Caul è un introverso, un uomo che vive di rimpianti, non solo quello che male che ha causato, ma anche di quello che potrebbe causare; il suo isolamento è volto ad evitare il dolore. E il suo lavoro, nel quale pur eccelle, è esso stesso fonte di dolore, soprattutto quando si scontra con la sua formazione cattolica.
E' nel dare corpo alla caratterizzazione del personaggio che Hackman risplende: per far risaltare la sua insicurezza e la sua tristezza, usa un approccio minimalista, usando sempre e solo gli sguardi, al massimo qualche piccolo gesto. Non esagera mai nella melodrammaticità neanche quando la scrittura lo richiede e il suo Harry Caul, prima ancora che credibile, è un personaggio che vive grazie ad una sincerità disarmante.


Il tema della paranoia subentra del tutto nella seconda parte e si lega a doppio filo con la caratterizzazione del protagonista. Da qui, Caul entra davvero in crisi al pensiero di poter aver nuovamente causato dolore a qualcuno. Da cui la ricerca ossessiva di un rimedio, solo per poi scoprire come tutto fosse diverso dai suoi sospetti. Il suo sguardo, che pur penetra senza remore nel privato, non è per forza di cose limpido, non è sempre veritiero: per quanto sia il migliore sulla piazza, il suo è pur sempre un punto di vista parziale sulla realtà, che quindi non può essere colta nella sua interezza.
Ribaltando l'assunto iniziale, Coppola anticipa il cinema che l'amico e collega Brian De Palma affronterà davvero con Vestito per Uccidere (benché anticipato già ne Le Due Sorelle) e decostruisce tutto quello che aveva costruito nel corso di tre quarti di film.
Il punto è chiaro: in quanto esseri umani, non possiamo avere fiducia in nulla, neanche nelle nostre sensazioni.
Da cui quel magnifico finale, dove Caul sprofonda nella disperazione paranoica e il suo sancta sanctorum viene fatto a pezzi, simbolo della mancanza totale di certezze nulla sua vita. Se non una: quella della solitudine.




La messa in scena distingue La Conversazione dal classicismo de Il Padrino. Qui Coppola, oltre che nelle sequenze clou, ricerca le inquadrature in modo più metodico, più sofisticato, facendo talvolta del virtuosismo fotografico un topos, come nella bella scena della cabina telefonica. 
Il suo occhio è clinico quando si tratta di dar corpo all'interiorità di Caul, ma sa quando smettere di trattenersi e ricercare soluzioni più azzardate (ancora, la scena del sogno), in un equilibrio di stili che rende la regia qualcosa di incredibile, anche se al contempo incredibilmente sottile, mai davvero del tutto virtuosistica, mai compiaciuta delle soluzioni che adotta. Soprattutto quando fa il paio con la scrittura, che talvolta si fa smaccatamente teatrale, come nella lunga scena madre del festino nel laboratorio, punto di svolta e al contempo centro nevralgico narrativo che viene sviluppato con la semplice interazione dei personaggi, ma portato in scena in modo dinamico, privo delle pastoie proprie del puro teatro filmato.



Proprio il modo in cui Coppola fa convivere tali contrasti rende La Conversazione un'opera unica, un esperimento che riesce perfettamente a coniugare racconto intimista e rappresentazione di ansie sociali, thriller e melodramma, teatro e puro cinema.
Rivisto oggi, poi, questo piccolo-grande capolavoro finisce per imporsi come una visione ammonitrice: cinquant'anni il pensiero che ci fosse un orecchio in ascolto nelle nostre case era paranoico, oggi è una realtà placidamente accettata.

lunedì 3 marzo 2025

Companion

di Drew Hancock.

con: Sophie Thatcher, Jack Quaid, Lukas Gage, Megan Suri, Harvey Guillén, Rupert Friend.

Grottesco/Thriller

Usa 2025














Enrico Melotti è un ricco borghese la cui esistenza è ammorbata dai rapporti con le donne della sua vita, a sua detta troppo volitive e per questo insopportabili. In visita da un amico in America, scopre l'ultimo ritrovato della tecnologia: Caterina, una ginoide in grado di compiere tutte quelle faccende domestiche che una moglie fa solitamente controvoglia, come cucinare, pulire e stirare; e senza lamentarsi, per di più. Entusiasta, decide di comprarne una e il robot inizia a servirlo ossequiosamente nella vita quotidiana. Ma questa macchina creata per soddisfare i bisogni tipici del maschio borghese italiano forse non è solo un comune elettrodomestico dotato di arti, forse ha dei sentimenti umani; fin troppo umani.
Ovviamente questa non è la trama di Companion, ma di Io e Caterina, commedia diretta e interpretata da Alberto Sordi nel 1980. Non di certo il primo film in assoluto a presentare l'idea di un androide che sostituisce la figura della moglie borghese, visto che La Fabbrica delle Mogli è datato 1975 e molto probabilmente ha costituito una fonte di ispirazione diretta per Albertone. Eppure, pensare quanto questo concept sia attuale, quante volte sia stato ripreso e come Io e Caterina risulti ad oggi un film praticamente sconosciuto a tutti è qualcosa di sconcertante.


Companion declina praticamente lo stesso concept, ossia quello di una ginoide nata per essere la compagna perfetta la quale finisce per essere troppo umana, persino più umana di chi serve. Concept che viene usato anche qui a livello metaforico per parlare dei rapporti tra uomo e donna e che arriva inoltre dopo decenni che lo stesso è stato declinato da decine di alte pellicole simili; giusto per citarne due: M3gan e il sottovalutato remake de La Bambola Assassina con Aubrey Plaza e Mark Hamill.
Fortunatamente, Drew Hancock, pur al suo esordio nel lungometraggio, è perfettamente cosciente non solo della mancanza di originalità del soggetto, ma anche di tutte le trappole che la sua lettura metaforica comporta. E con classe riesce a schivarle, trovando tra l'altro nella bellissima Sophie Thatcher una protagonista a dir poco ottima.



La trama è bene o male quella di un horror slasher: Josh (Quaid) e la bellissima fidanzata Iris (la Thatcher) passano il week-end nella villa del ricco amico Sergey (Ruper Friend), assieme alla sua bella amante Kat (Megan Suri) e alla coppia di amici gay Eli (Harvey Guillén) e Patrick (Lukas Gage). Aggredita sessualmente da Sergey, Iris si difende causandone la morte, ma il vero colpo di scena è, appunto, il fatto che lei sia in realtà un androide da compagnia. E che forse dietro questa riunione tra amici ci sia qualcosa di losco...



Il colpo di scena sull'identità di Iris avviene alla fine del primo atto ed è in realtà un peccato che venga svelato nel trailer finale. Se si riguarda infatti il teaser, Companion viene presentato come un mystery su di una relazione tossica, praticamente la tematica portante del film; svelare la vera natura della protagonista finisce con il disinnescare uno shock che avrebbe sicuramente fatto piacere allo spettatore, un pasticcio di marketing fatto di recente anche nel caso di Abigail, dove la natura vampiresca della piccola protagonista, vero colpo di scena portante del film, veniva svelata in tutta la campagna pubblicitaria.
Casino delle agenzie stampa a parte, Companion si fa notare in primis per il fatto che qui il robot assassino non è il carnefice, ma praticamente la vittima. 



La donna è letteralmente un oggetto, un giocattolo da programmare a piacimento impostandone la personalità e il carattere. Un orpello da usare per i propri scopi, sessuali in primis, ma non solo. E qui arriva la reminiscenza di un altro classico italiano dimenticato, ossia I Love You di Marco Ferreri, che già nel 1985 immaginava la donna come un orpello da portarsi in giro.
Companion non circoscrive tale visione alla sola donna, ma al rapporto di coppia in generale. In ogni coppia c'è una parte dominante e una dominata, come nei classici di Rainer Werner Fassbinder. L'evoluzione del personaggio di Iris sta dunque nella presa di coscienza di questa sua subordinazione e nel suo superamento, nella sua emancipazione non in quanto donna, ma in quanto essere umano completo (benché fatto di pelle sintetica e metallo).



Hancock, per l'appunto, sa di non poter circoscrivere il tema della tossicità delle relazioni al solo rapporto uomo/donna. Il mostro del film, ossia Josh, è un manipolatore che per il suo tornaconto manipola chiunque, non solo Iris; ma a sua volta è anch'egli manipolato da Kat, che si rivela anch'ella machiavellica quanto il maschio arrogante e sfigato. Nel mondo di Companion, la cattiveria non è una questione di genere, ma di natura, quindi il discorso risulta più onesto e genuino di quanto visto in tanto cinema finto-impegnato degli ultimi dieci anni.



La metafora, fortunatamente, non divora tutto il racconto, che viene sviluppato come un thriller vero e proprio, concernente le vere intenzioni di Josh e degli altri invitati. Ed è qui che la scrittura di Hancock si fa davvero convincente, intavolando una serie ribaltamenti e colpi di scena che funzionano sempre bene. La sua poca esperienza nel racconto cinematografico vero e proprio semmai si nota solo nell'abuso di scene didascaliche, i famosi "spiegoni" sul funzionamento degli androidi da compagnia, oltre che per l'ovvio uso del foreshadowing, il cliché più abusato nel cinema americano di genere recente, che qui prende praticamente le forme di una pistola di Cechov.



A discapito della mancanza di originalità, Companion riesce a convincere sia come thriller sia come metafora grottesca. Hancock ha la mano ferma e il cast è perfettamente in parte. Su tutti, è la Thatcher che ovviamente fa la parte della leonessa, con un'interpretazione che sa essere tanto empatica quanto sottilmente inquietante; un primo ruolo da protagonista, dopo la gavetta iniziata in tv, che si spera preluda ad una sfolgorante carriera.