lunedì 26 maggio 2025

Mission: Impossible- The Final Reckoning

di Christopher McQuarrie.

con: Tom Cruise, Hayley Atwell, Simo Pegg, Ving Rhames, Pom Klementieff, Esai Morales, Greg Tarzan Davis, Rolf Saxon, Angela Bassett, Shea Wigham, Henry Czerny, Holt McCallany, Janet McTerr, Nick OffermanHanna Wendingham, Tramell Tillman, Mark Gatiss, Cary Elwes, Caty O'Brian.

Azione/Thriller

Usa, Regno Unito 2025











Tutte le serie giungono al termine. O, per lo meno, è bene che arrivati ad un certo punto si decida di smettere di continuare determinati franchise; il che diventa quasi una necessità quando il concept su cui sono basati risale ai tempi della Guerra Fredda. 
Qualche anno fa è toccato all'agente 007 andare (temporaneamente) in pensione, quest'anno tocca a quello che è praticamente il suo equivalente americano, l'Ethan Hunt di Tom Cruise, che dopo quasi trent'anni di onorato servizio decide finalmente di appendere gli stivali da stuntman al chiodo.
Per Cruise è praticamente una necessità, sia a causa dell'età anagrafica, sia per quella voglia, esternata un annetto fa, di tornare a ruoli che lo portino a dimostrare nuovamente di non essere solo un corpo in grado di compiere imprese olimpioniche; tanto che l'implosione del progetto di The Movie Critic di Tarantino, del quale avrebbe dovuto essere protagonista, e le sue recenti esternazioni sulla lavorazione di Top Gun 3 non possono che mettere tristezza.
The Final Reckoning non è però un semplice biglietto d'addio (o arrivederci che sia) per la serie inaugurata da Cruise e Brian De Palma nel 1996, quanto anche e soprattutto un confronto con il passato, con quanto è stato fatto dalla serie sia al cinema che in televisione. Perché è qui, oltre che nel primo film, che l'influenza di quello storico telefilm si fa sentire.



















Andata in onda tra il 1966 e il 1973, con un successivo revival andato in onda tra il 1988 e il 1990, Missione Impossibile era una serie a suo modo innovativa per i suoi tempi. Benché sempre basata su di una narrazione episodica, portava in scena le missioni della Impossibile Mission Force, gruppo di ex delinquenti arruolati dalla NSA per le loro capacità di ingegneri e truffatori. Ogni missione era basata su di un piano rivolto ad ingannare il nemico di turno, solitamente l'alto papavero di qualche immaginaria nazione straniera, il quale, con una serie di travestie e false piste, finiva per fare il gioco delle spie americane. 
Al di là del modo in cui le trame erano congegnate, per l'epoca era innovativo vedere sul piccolo schermo una tensione costruita praticamente tramite le sole immagini, con un uso certosino degli inserti e del montaggio, in un linguaggio che a tratti si avvicinava al miglior cinema di genere.
Al cinema, la serie di Mission: Impossibile è sempre stata sinonimo di azione ben eseguita, di stunt pazzeschi, letteralmente di Tom Cruise che fa cose matte mettendo a repentaglio la propria incolumità per il divertimento del pubblico, generando, a lungo andare anche una ripetitività tangibile.
The Final Reckoning sostituisce il gusto per l'azione esagerata e fracassona con quello per la tensione, almeno per la maggior parte della sua durata.




















Tutta la prima parte è dedicata al piano di Hunt per sconfiggere la terribile IA chiamata "l'entità". Oltre a riprendere i fili di trama lasciati in sospeso con Day of Reckoning, McQuarrie e Cruise costruiscono la tensione grazie allo status di fuggitivi di Hunt e soci, ora braccati tanto dai devoti della macchina, quanto dal governo americano. L'impossibilità di discernere alleati e amici, oltre ai soliti colpi di scena che ribaltano la situazione di turno, con un uso tutto sommato sapiente dei dialoghi, portano davvero ad una sensazione di suspense, la quale praticamente per la prima volta non sfocia nella azione pura se non nella seconda parte del film.
E' qui che The Final Reckoning torna davvero ad essere un Mission: Impossible filmico. E come i migliori capitoli della serie, mantiene tutte le promesse riguardo alla spettacolarità, con un inseguimento finale in aeroplano adrenalinico, per quanto troppo lungo, e la lunga discesa nel relitto del sottomarino russo che fonde bene tensione e spettacolo, benché nel finale sfoci nel ridicolo involontario, con la fuga di un sessantaduenne Cruise dagli abissi artici da nudo (!!!). 



















Il confronto con il lascito del passato si ha quando si decide di mettere in connessione per la prima volta i capitoli del franchise. Tornano così elementi del primo film, alcuni dei quali davvero curiosi; soprattutto, paradossalmente, si è deciso di connettere questo ultimo atto con quel Mission: Impossibile III che non solo rappresenta ancora oggi il peggiore exploit della serie, ma ha coinciso anche con il punto più basso della carriera di Cruise. Volontà di dare dignità a qualcosa che non ne aveva una ventina di anni fa e non può averne oggi? Può darsi, fatto sta che per fortuna quei tempi sono passati.
A perplimere, semmai, è il tono quantomai serioso con cui il tutto viene portato in scena. I tocchi di humor talvolta non mancano, ma sono davvero sparuti nelle quasi tre ore di durata. La storia, di per sé stessa, viene approcciata con una vis drammatica da capogiro, benché sia ai limiti del ridicolo: uno Skynet praticamente realistico decide di scatenare il genocidio della razza umana per farla evolvere, avallato da un gruppo di fanatici i quali si sono infiltrati negli alti ranghi dei governi mondiali (ovviamente qualsiasi riferimento a Scientology è casuale). L'implicazione diretta è che, in sostanza, Internet è il Male Assoluto, un diavolo di silicio in grado di creare un Armageddon atomico per puro capriccio perché noi umani abbiamo deciso di affidarci totalmente alle macchine.
Ridicolo? Sicuramente. Retorico? Fin troppo, tanto che, complice la battuta sul "passare troppo tempo su Internet", il tutto a tratti sembra lo sproloquio di un sessantenne contro i giovani che "non sanno fare nulla senza lo smartphone".



















Eppure, al netto di tutte le ingenuità possibili, il monito di questo ultimo dittico sulle peripezie di Ethan Hunt non può che portare ad un riflessione su quanto noi esseri umani dipendiamo dalla tecnologia. Non tanto nell'organizzazione ed esecuzione di compiti anche importanti, come l'amministrazione governativa e militare, quanto nell'approcciarci alla realtà: se il nostro pensiero viene formato esclusivamente da quanto apprendiamo tramite uno schermo connesso alla rete, allora la nostra mente può essere manipolata nella più semplice delle maniere. Un monito vecchio di decenni, che tanta narrativa cyberpunk ha già portato alla ribalta, ma che oggi come non mai appare urgente.
Più che un pezzo di fanta-filosofia a là William Gibson, The Final Reckoning è ovviamente nulla più che il classico mix di thriller e azione. Tutto sommato ben condotto, intrattiene a dovere e stupisce nel suo non abusare della spettacolarità gratuita. Per Ethan Hunt forse questo poteva essere l'unico congedo possibile, visto la stanca che stava cominciando ad affliggere le sue avventure.

lunedì 19 maggio 2025

Werewolves

di Steven C.Miller.

con: Frank Grillo, Katrina Law, Lou Diamond Phillips, Ilfenesh Hadera, James Michael Cummings, Kammdym Gary, Lydia Styslinger, Daniel Fernandez.

Azione/Horror

Usa 2024
















Quando si pensa a "gloriosa e onesta serie B", si pensa ad un film come Werewolves e, in generale, al cinema di Steven C. Miller. Un uomo che nel 2012 ha partorito quel remake di Silent Night, Deadly Night che non solo ne sapeva cogliere bene o male lo spirito, ma ne riusciva a reinventare efficacemente il racconto. Con Werewolves fa qualcosa di meno e al contempo qualcosa di più, ossia un film che negli anni '80 avrebbero tirato fuori quelli della Cannon o della New World Pictures e, senza pretendere di rivoluzionare nulla o dire qualcosa di nuovo, lo porta in scena con una serietà ridicola e con tanta onestà; ma l'onestà, purtroppo, non sempre basta.


















Un' onestà che parte dalla trama: una "superluna" trasforma gli esseri umani in lupi mannari, cosa già successa una volta e che ora sta per ripetersi. Ma a questo giro c'è Frank Grillo, biologo molecolare, il quale deve badare alla famiglia del defunto fratello, mentre ovviamente cerca un modo per curare questo morbo.
Una trama talmente assurda da diventare immediatamente credibile. In fondo, cosa c'è di più semplice di una notte di luna piena alla quale sopravvivere quando si deve imbastire un racconto di tensione con i licantropi? E Miller non vuole usare questa sorta di "Notte del Giudizio con i lupi mannari" per creare metafore sull'innata violenza umana, né pretende di riscrivere le regole della tensione, solo condurre il tutto nel modo più diretto possibile.


















Certo, le stoccate sociologiche non mancano: il "cattivo" di turno è un survivalista MAGA con bandiera americana pitturata sulla faccia che approfitta del delirio per sfogare i suoi istinti violenti, ma anche questa sua inclusione non vira il racconto dalla pura azione.
Azione che Miller porta in scena in modo claudicante: il montaggio veloce e confusionario talvolta cerca di coprire il basso budget, rivelandosi però sempre come una scelta poco felice, tanto che nessuna scena risulta davvero adrenalinica o tesa.
















Miller e lo sceneggiatore Matthew Kennedy infatti tirano su tutta la vicenda come un action piuttosto che come un horror vero e proprio. Tutto è ridotto ad un viaggio verso la casa della cognata di Grillo, tutti i personaggi sono messi al servizio degli eventi, tanto che anche i risvolti più interessati vengono lasciati fuori scena, come la tribù asserragliata nel mercato o i cacciatori di lupi. 
Cosa funziona alla fine? Poca roba. 
Gli attori sono ai limiti del miscasting, con Frank Grillo che è lo scienziato più improbabile che si sia visto al cinema dai tempi di Denise Richards in 007 Il Mondo non Basta, Katrina Law ci prova anche, ma non riesce ad essere empatica quanto il ruolo richiede e il pur buon Lou Diamond Phillips viene sprecato nei panni del capo scienziato fatto secco alla fine del primo atto.
Ma alla fine non ci si può non commuovere davanti ai quei lupacchioni fatti con effetti analogici o quelle sparatorie che pur ci provano ad essere reminiscenti del miglior action anni '80. E Werewolves non è se non quello che vuole essere, ossia serie B senza la minima pretesa. Senza neanche chissà quale raffinatezza, certo, ma lo stesso senza vere pretese.

martedì 13 maggio 2025

Thunderbolts*

di Jake Schreier.

con: Florence Pugh, Lewis Pullman, Sebastian Stan, David Harbour, Julia-Louis Dreyfus, Wyatt Russell, Olga Kurylenko, Hannah-John Kamen, Geraldine Viswanathan.

Azione/Fantastico

Usa, Australia, Canada 2025
















---CONTIENE SPOILER---

I Marvel Studios stanno risalendo la china? Al momento sembrerebbe di si.
Perché di certo Captain America- Brave New World è un film mediocre e insipido, ma decisamente un passo avanti rispetto all'inqualificabile The Marvels; così come Daredevil- Rinascita è l'ombra di quel primo Daredevil televisivo che una decina d'anni fa incantò gli spettatori, ma è sicuramente migliore di tanta spazzatura in streaming targata Marvel vista su Disney+. E persino quel Agatha All Along, da molti deprecato, è un'operazione riuscita e simpatica.
Thunderbolts* sta ricevendo parecchi consensi finanche in quel fandom che un tempo idolatrava qualsiasi cosa avesse il logo della Casa delle Idee, ma che ora ne depreca qualsiasi incarnazione, segnando un primo passo avanti nel ritorno alla forma di una casa di produzione la cui caduta in disgrazia era forse inevitabile. Il che è paradossale se ti tiene conto sia in parte di ciò che effettivamente è l'operazione alla base del film, sia del gruppo di supertizi al quale si ispira.



















Il primo gruppo a portare il nome del film, creato da Kurt Busiak nel 1997, era composto da un manipolo di supercriminali che si spacciava per supereroi, guidati da quel Barone Zemo visto anche nel MCU, in un periodo nel quale  i Vendicatori e i Fantastici Quattro erano deceduti nell'evento Onslought, lasciando l'universo 616 privo dei suoi eroi più potenti. Dei cattivi che iniziano a "fare giustizia" come mezzo per coprire le proprie malefatte, ma che finiscono per trovare un vero senso di giustizia nelle loro azioni, divenendo, a loro modo, dei buoni. Una trovata intrigante, che però ha avuto poco fortuna, nonostante tra le varie incarnazioni i Thunderbolts siano stati in giro per una quindicina d'anni abbondante.
D'altro canto, la formazione più celebre del gruppo, risalente ai tempi di Marvel Now!, vedeva tra le fila alcuni degli antieroi Marvel più amati, ossia Elektra, il PunitoreDeadpool e Agent Venom, guidati in battaglia dall'Hulk rosso Thunderbolt Ross.


La formazione del film, invece, si rifà alla serie più recente, probabilmente tirata su appositamente per scopi pubblicitari, e vede un gruppo creato letteralmente con gli scarti del MCU: U.S. Agent da The Falcon and the Winter Soldier, quel "Taskmaster-Terminator" visto in Black Widow, Red Guardian, quella Ghost vista la prima e ultima volta nel brutto Ant-Man and The Wasp, Bucky Barnes e Yelena Belova, che assume il ruolo di leader al servizio di Valentina De Fontaine, praticamente nuova Nick Fury, il cui allineamento morale va però dal grigio al nero cupo. Un gruppo di "sfigati", supereroi di riserva in cerca di rivalsa che nel film alla fine diviene praticamente la nuova formazione degli Avengers, da cui l'asterisco del titolo, in un arco narrativo tutto sommato piatto.
Decisamente più interessante è l'inclusione, nei panni dell'antagonista, di Sentry, uno dei personaggi più singolari di tutta la vita editoriale Marvel.



















Sentry non è che il Superman della Marvel, visto che ne ha praticamente tutti i superpoteri e persino una grossa S sul costume. Tutto qui? Certo che no.
Il suo creatore è quel Paul Jenkins che, soprattutto grazie alla sua run su Hellblazer, si è imposto come un narratore anticonvenzionale persino quado si cimenta in operazioni più mainstream. E la sua prima miniserie sul Superman Marvel di convenzionale aveva ben poco.



Introdotto come un uomo comune, Sentry è Robert Reynolds, alcolizzato di mezza età che inizia ad avere strani ricordi su di un passato da supereroe e, contemporaneamente, visioni future del ritorno della sua mortale nemesi, una creatura amorfa chiamata Void. Pian piano i superpoteri iniziano a manifestarsi, ma se lui è davvero un superuomo, perché nessuno ha memoria degli eventi che lo hanno visto protagonista?
Reynolds inizia così un viaggio per recuperare i ricordi perduti, incontrando tutti gli eroi dell'universo 616, fino ad una scioccante rivelazione: lui era davvero Sentry e ha combattuto, assieme agli altri eroi, Void in una battaglia che ha causato milioni di morti. Ma il vero colpo di scena in realtà è un altro: Void altro non è che la manifestazione del suo subconscio, quindi più Sentry compie azioni eroiche, più Void ha la possibilità di prendere forma fisica. L'unica soluzione era quindi quella di obliare ogni ricordo riguardo a quegli eventi.
Jenkins crea così non solo un classico eroe tormentato, ma anche una intrigante declinazione sulla necessaria coesistenza tra bene e male e sulla tematica della malattia mentale, in una delle miniserie più interessanti della Marvel post 2000. Nonché quello che è praticamente uno degli ultimi supereroi originali sfornati dalla Casa delle Idee, visto che da lì a poco si sarebbero limitati a cambiare l'identità segreta degli eroi classici.
Sentry viene poi bene o male incluso nel roaster principale degli eroi e la sua origin story rimodulata per adattarsi meglio all'universo Marvel, con tanto di collegamento al progetto del Super Soldato: i poteri gli sono stati infatti concessi da una variante della formula che aveva creato Capitan America, grazie ad un serio che aveva ingerito durante una crisi di astinenza, portando avanti la sua caratterizzazione di eroe afflitto dalla tossicodipendenza.
La seconda serie di Sentry compie poi un'operazione ardita, ma che alla fine paga, ossia includere persino Paul Jenkins come personaggio: in una simpatica mossa metatestuale, si scopre come la prima miniserie altro non fosse che un fumetto pubblicato nell'universo 616. Il vero Sentry si era messo in contatto telepatico con Jenkins e aveva ispirato quella storia, la quale è stata rielaborata dall'autore. La differenza sta nel fatto che il legame tra Sentry e Void è meno forte di quanto visto in precedenza, quindi Reynolds ora può usare più liberamente, combattendo al fianco degli eroi classici. Anche se, in un ulteriore ribaltamento, finisce per diventare il braccio armato di Norman Osborne nella miniserie Regno Oscuro, portando il caos nel mondo, culminando in una delle vignette più iconiche della storia Marvel, nella quale apre in due il dio Ares.

























Thunderbolts*, inteso come film, appare essere un'operazione derivativa. Inutile girarci attorno: questo non è altro che il Suicide Squad del MCU, con un gruppo di reietti quasi tutti privi di veri superpoteri chiamati a combattere una minaccia sovrannaturale e soverchiante per conto di una dirigente dei servizi segreti (qui anche imprenditrice) dalla moralità dubbia, in una storia immersa in un tono sarcastico e abrasivo. Forti però sono anche altre due influenze, ossia quella di The Boys per il modo in cui Sentry viene reinventato, divenendo praticamente un supereroe costruito ad hoc da un'azienda privata per scopi militari; oltre che l'influenza dell'ancora sottovalutato Legion per il modo in cui la psiche tormentata di Reynolds, qui ribattezzato con il diminutivo Bob, prende forma.
Ed è anche bene mettere in chiaro un'altra e più ovvia cosa: nonostante il film si chiami Thunderbolts, i Thunderbolts non sono il vero perno della narrazione.















Sebbene lo script tenti di mettere al centro di tutto i superproblemi di Yelena, di suo padre Alexei, del "Capitan America scartato" John Walker e persino di quella Ghost che anche qui lascia il tempo che trova, è Bob ad essere non solo il vero motore degli eventi, ma anche il vero centro emotivo di tutto il film. Se i Thunderbolts finiscono per essere delle macchiette in un film che serve praticamente solo a riunirli, con la conseguenza che tutta la prima parte risulta a tratti raffazzonata e quasi noiosa, per fortuna il modo in cui il personaggio di Sentry viene trasposto finisce per salvare il film e renderlo davvero interessante.
Bob ha innanzitutto il volto perfetto di Lewis Pullman, che riesce a comunicarne magnificamente la fragilità e le insicurezze. Void viene poi reinterpretato come non più una semplice manifestazione del subconscio del personaggio, ma come il coacervo di tutti i sentimenti negativi che reprime, una forza astratta che divora qualsiasi cosa si trovi innanzi per trasportarla in una dimensione altra nella quale ciascuno è chiamato a confrontare i propri timori e quel dolore rimosso che solitamente si cerca di seppellire nel profondo.
Tale manifestazione prende le mosse non solo dalla depressione che affligge lui così come Yelena, che qui diventa forza empatica e salvifica, ma anche dal disturbo dissociativo che ha sviluppato a causa dei traumi infantili. Una tematica brutale, che il film riesce a maneggiare tutto sommato a dovere, declinandola con la giusta sensibilità, senza scadere nel pedante, né nel patetico. E, soprattutto, dando una morale tutto sommato giusta, soprattutto per il giovane punto di riferimento del pubblico: il dolore si supera solo aprendosi al prossimo.


















Per il resto, questo Thunderbolts* è giusto un simpatico film d'azione, condotto con mano altalenante da un regista, Jake Schreirer, praticamente al secondo lungometraggio e che si è fatto le ossa con i videoclip e le serie in streaming (tra le quali spuntano episodi dei simpatici Al Nuovo Gusto di Ciliegia e Star Wars- The Skeleton Crew); una regia di buon mestiere, soprattutto nel dar vita alle scene d'azione e alle visioni, che paradossalmente incespica nei momenti più rilassati, i quali durano troppo e ben avrebbero potuto essere sfoltiti in sede di montaggio.
Un nuovo exploit che è solo l'ennesimo tassello nell'ennesimo mosaico Marvel. Nulla di memorabile ma tutto sommato ben condotto, per questo meglio di quanto visto ultimamente.

mercoledì 7 maggio 2025

Until Dawn- Fino all'Alba

di David F.Sandberg.

con: Ella Rubin, Michael Cimino, Odessa A'Zion, Ji-Young Yoo, Belmont Cameli, Maya Mitchell, Peter Stormare.

Thriller/Horror

Usa, Ungheria 2025















---CONTIENE SPOILER----

Il mondo dei videogame è il nuovo filone d'oro di Hollywood?
I successi al cinema di Super Mario bros.- Il Film, Un Film Minecraft e in streaming di Fallout e Arcane sembrerebbero confermalo. Il che è ovviamente paradossale laddove si pensa che, dopo un inizio anche per certi versi promettente (almeno in termini economici), per circa trent'anni gli adattamenti dei videogame erano vera e propria spazzatura filmica (vedasi praticamente tutta la carriera di Uwe Boll).
Adattare al formato filmico gli elementi di un gioco, poi, non è mai stato semplice, ma è noto come esistano giochi che ben si prestano a tale procedimento. Uno di questi è Until Dawn, rientrante nella categoria dei "film interattivi".


















Pubblicato nel 2015 ad opera di Sony, Until Dawn presentava un concept di sicuro non nuovo, ma sempre intrigante, ossia una serie di sentieri narrativi nei quali il giocatore è chiamato a decidere, volontariamente o meno, il fato di un gruppo di personaggi braccati da un misterioso killer nei boschi. Il che garantiva una forte rigiocabilità, oltre che una prima run che presentava una trama tutto sommato ben congegnata, con un colpo di scena scontato solo in apparenza: non c'era nessun killer, il tutto era uno scherzo orchestrato da uno dei ragazzi. Ma allora perché alcuni personaggi sono morti lo stesso? Semplice: perché in quei boschi si aggiravano anche dei wendigo.
Inversione ridicola anch'essa solo su carta, con la transizione dal mondano al sovrannaturale che nella storia funzionava a dovere. E sebbene non abbia ridefinito un genere che conta una lunga tradizione, Until Dawn ha di certo consentito ad una nuova generazione di avvicinarvisi.



















Adattare storia e personaggi nati per quella che era un'opera più vicina alla narrativa convenzionale anziché quella interattiva è sicuramente più semplice rispetto a videogame che presentano tonnellate di antefatti e complesse mitologie. Ma proprio tale vicinanza è forse un'arma a doppio taglio.
L'adattamento è diretto da quel David F.Sandberg che, scottato dal flop del suo ultimo blockbuster, ha deciso esplicitamente di tornare al genere horror e a produzioni piccole e quella di Until Dawn è senza dubbio una produzione fatta con poco, tanto che l'unico attore visto nel gioco a riprendere il proprio ruolo è Peter Stormare. Certo, pretendere che Rami Malek, nel frattempo insignito con l'Oscar e divenuto una star prima grazie a Mr.Robot e poi con Bohemian Rhapsody, abbassasse il proprio cachet per tornare alle origini della propria carriera era forse troppo; ma non si capisce perché a tornare non siano state le attrici Hayden Panettiere e soprattutto Galadriel Stineman, i cui nomi, benché conosciuti dai cinefili e spettatori televisivi, di sicuro non pretendono cifre troppo difficili da raccimolare.
Il neo di tale adattamento è forse proprio questo, pur nella sua banale inconsistenza: quei nomi e quei volti, benché renderizzati con il motore grafico, rendevano il gioco riconoscibile e gli donavano un'aura propria, cosa che qui non avviene, visto che i nomi coinvolti sono quelli di attori misconosciuti (a parte Odessa A'Zion, già vista nella recente reimmaginazione di Hellraiser).





















Un difetto a dir poco nullo. Perché la forza del film di Until Dawn sta proprio nel fatto che si allontani del tutto dalla storia del gioco per trovare una propria dimensione, pur restando fedelissimo al concept che vi è alla base. Se nel videogame si ritrovavano tutti i luoghi comuni dello slasher anni 2000, con personaggi antipatici e stereotipi verso i quali il giocatore era chiamato ad ignorare ogni forma di empatia, nel film i personaggi sono alle prese... con un gioco mortale.
La trama è tutto sommato semplice: Clover (Ella Rubin) è in cerca della sorella scomparsa qualche tempo prima. La sua ricerca, nella quale è accompagnata dal classico gruppo di amici, la porta in un bed & breakfast in una isolata località di montagna. Qui l'intero gruppo viene subito massacrato da un killer mascherato. Ma il colpo di scena è rivelato subito: sono tutti prigionieri di una maledizione che li porta a rivivere la stessa notte in continuazione. Se sopravvivono fino all'alba, saranno liberi, altrimenti si trasformeranno in uno dei predatori, siano essi uno dei killer mascherati o dei letali wendigo.



















In sede di script, il duo di sceneggiatori Blair Butler e Gary Dauberman (quest'ultimo autore degli infausti It- Capitolo Due e il recente Salem's Lot e forse vera causa di una caratterizzazione basilare dei personaggi) si è divertito a giocare con il concept di rigiocabilità e di loop nel quale i personaggi di un videogame sarebbero sempre rinchiusi. E la rigiocabilità per portare i personaggi alla fine della notte era appunto una delle caratteristiche del gioco. Anche se quindi la storia è totalmente diversa, il film di Until Dawn è in realtà un adattamento fedele del gameplay, il quale qui viene traslitterato in una forma narrativa lineare, senza però perdere la sagacia. Con la conseguenza che il punto di riferimento filmico ora non sono più gli odiosi slasher anni 2000, bensì il metahorror a là Quella Casa nel Bosco.
Così facendo, Until Dawn trova una sua dimensione, una sua originalità che, benché non assoluta, gli garantisce almeno di avere un'identità più di spicco rispetto alla norma. Evenienza non scontata, visto che giusto un anno fa l'adattamento di Five Nights at Freddy's aveva provato un approccio simile, ma con scarsi risultati. Qui gioca a favore della riuscita anche la mano di Sandberg, che sa quando spingere il pedale dell'ironico e quando trattenere il tutto per creare una tensione tutto sommato di buona caratura.



















Until Dawn riesce così nella duplice impresa di essere al contempo un'opera a suo modo originale e un adattamento fedele. Un horror simpatico, che incespica giusto nella caratterizzazione piatta dei personaggi di contorno, ma che alla fine fa il suo dovere a modo.