martedì 16 ottobre 2018

Halloween- La Notte delle Streghe

Halloween

di John Carpenter.

con: Jamie Lee Curtis, Donald Pleasance, Nick Castle, Tony Moran, Charles Cyphers, Nancy Loomis, P.J. Soles.

Thriller

Usa 1978















---CONTIENE SPOILER---


Chissà in quanti avrebbero scommesso sul successo di "Halloween" alla vigilia delle sue riprese, su quel piccolo film che avrebbe generato un intero filone ed una pletora di sequel e remake tutt'oggi in corso; di sicuro l'opera più virtuosistica e famosa del grande John Carpenter non nasceva di certo sotto i migliori auspici: un piccolissimo film prodotto con appena 300 mila dollari di budget. ossia una miseria persino per quelle pellicole solitamente destinate al circuito dei drive-in e dei cinema "grindhouse", girato totalmente in California per risparmiare sulla benzina (l'immaginaria città di Haddonifield dovrebbe essere in Illinois, ma sullo sfondo degli esterni è facile riconoscere le palme californiane), con giusto un attore famoso (Donald Pleasance, di certo non una star) ed un intero cast di esordienti, capitanato dalla sconosciuta Jamie Lee Curtis.
Ma Carpenter già all'epoca si era fatto un nome come artista del cinema di genere, perfetto esponente di quella generazione di cineasti americani (in cui sono annoverabili tra gli altri Joe Dante, John Landis, persino Lucas e Spielberg) in grado di assimilare la lezione dei grandi maestri del passato e del presente e di reinventare generi e registri in chiave modernissima. Naturalmente, limitare la portata e l'importanza di "Halloween" al solo cinema di genere sarebbe riduttivo, ma del tutto azzeccato visto il modo in cui è riuscito a reinterpretare le istanze di tanto cinema classico in uno spettacolo modernissimo nello stile e nei contenuti.
Ma per comprendere appieno il lavoro svolto dal grande cineasta di origine newyorkese bisogna tenere presente il periodo in cui fu prodotto e partire da un altro paio di thriller, usciti giusto qualche anno prima, ai quali Carpenter si rifà in pieno per plasmare la notte di Michael Myers.




Era il 1974 quando usciva nelle sale americane "Black Christmas" (poi arrivato in Italia con il titolo "Un Natale Rosso Sangue", riscuotendo anche qui un discreto successo di cassetta), thriller canadese diretto dall'artigiano Bob Clark (che nei primi anni '80 troverà nuovo successo con la serie "Porky's" ma che non si ripeterà più agli stessi livelli) che per primo riprendeva le istanze di tanto cinema di Hitchcock e di Micahel Powell e le trapiantava nella modernità.
"Black Christmas" presenta per la prima volta un setting festivo che fa da controaltare, con la sua atmosfera festosa, alle sanguinolente gesta del killer; ma prima ancora, riprende la lezione di Powell e dell'immortale "L'Occhio che Uccide" per presentare il punto di vista dell'assassino durante gli omicidi: ancora oggi spettacolari sono le soggettive adoperate per seguire "dall'interno" i suoi passi, così come l'uso dei grandangoli stroboscopici per mimarne la visione distorta.
Originale è anche la costruzione della trama, con una risoluzione ai delitti negata in ultimo (l'identità dell'assassino non viene mai scoperta) ed un movente di natura sessuale, con le giovani vittime martoriate perchè troppo libertine.
Reduce dalla lavorazione del suo esordio nel lungometraggio "Dark Star" ed ammaliato dalla visone di "Black Christmas", Carpenter decide di girarne un sequel che ne espandesse istanze visive e tematiche, utilizzando un setting certamente più consono alla catena di morti che avrebbe portato in scena, quello della festa di Ognissanti. Ma vistosi negare il consenso della produzione a riprendere in mano quel soggetto, decide altresì di rifarlo a modo suo, imprimendogli un impronta ancora più autoriale, ancora più vicina al cinema di Dario Argento e di Hitchcock per stile; "Halloween" è quindi figlio di intuizioni altrui, sviluppate e perfezionate certosinamente.



E se si vuole parlare di "slasher", di come ne sia stato l'apripista, è bene da subito puntualizzare come esso non abbia nulla a che fare con il capostipite effettivo del filone, quel "Reazione a Catena" saccheggiato invece dalla serie di "Venerdì 13", nata proprio sull'onda del successo carpenteriano.
Il punto di riferimento, oltre a "Black Christmas", per Carpenter è un altro grande "giallo movie", il capolavoro argentiano "Profondo Rosso", dal quale viene ripreso il gusto per il virtuosismo estremo, la cura maniacale nella costruzione delle scene e finanche le note dello score, davvero vicine alle sonorità dei Goblin.





L'imperativo, nella creazione di "Halloween", era uno solo, ossia produrre un film minuscolo ma che sembrasse più grande di quello che era, abbandonando l'estetica sciatta e piatta di tanto cinema indipendente in favore di un look più ricercato; ecco perchè del misero budget la maggior parte fu utilizzato per noleggiare delle ottiche anamorfiche che facessero somigliare il prodotto finito ad un film da studio piuttosto che a una piccola produzione off-Hollywood. Ma naturalmente la tecnica è nulla senza lo stile e questo Carpenter lo sapeva benissimo.
Assodata l'impossibilità di poter mostrare più di tanto su schermo, essendo il concept alla base della sceneggiatura un semplice "belle ragazze inseguite da un maniaco armato di coltello", il grande regista ricerca con fervore una messa in scena plastica e stilizzata, che fa dei movimenti di macchina e delle inquadrature il mezzo perfetto (sempre come Hitchcock insegna) per trasmettere tensione. Basterebbe in proposito citare la splendida opening shot per comprenderne la maestria: un lungo piano sequenza, spezzato giusto in un paio di punti, in cui lo spettatore è chiamato a muoversi nei panni dell'assassino, spiando le vittime, pregando che qualcosa interrompa l'azione, solo per culminare in un climax sanguinolento (pur se la violenza viene lasciata fuori campo per ovvi motivi produttivi); solo per poi essere spiazzati da un secondo colpo di scena, decisamente più destabilizzante: l'assassino altri non è che un bambino.




Opening che racchiude in sè tutta la costruzione del film, che, al pari di "The Texas Chainsaw Massacre", si scinde idealmente in due parti: un primo tempo dove la tensione è sottile e vengono introdotti ad uno ad uno i personaggi, contrapposto ad un secondo in cui la tensione esplode in un lungo inseguimento, sino al climax con susseguente colpo di scena. Nel mezzo, è l'occhio del regista a regalare i brividi, concentrandosi sulla mera tensione piuttosto che sullo spavento; al bando, come detto, la violenza, la quale resta sempre fuori dal campo visivo della macchina da presa come un orpello inutile, ancora più che nell'opera di Tobe Hooper: a contare è unicamente la suspanse generata dai movimenti dell'assassino piuttosto che i risultati degli stessi.




Assassino che, come nel caso di Leatherface, ha una statura iconica; e proprio il confronto con la creatura di Hooper appare nuovamente interessante: laddove il gigante armato di motosega è una creatura del tutto terrena, figlia dell'arretratezza dell'America rurale, Michael Myers è invece una creatura ai limiti del mitologico, un'incarnazione immanente di un male assoluto e a-razionale; non c'è spiegazione per i suoi omicidi (in questo primo film non esiste nemmeno un rapporto di parentela con Laurie, introdotto solo nel successivo "Halloween II- Il Signore della Morte") che non sia del tutto circostanziale (Michael nota Laurie all'esterno del rudere della propria casa, nulla più) o metaforico (la morte come castigo contro la libidine).
Un male che uno scienziato, moderno Van Helsing, tenta di esorcizzare: è grazie al Dottor Loomis (che il compianto Pleasance incarna con un'umanità sottile) se questa creatura assume connotati quasi mistici, trasfigurandosi dall'umano all'astratto ("The Shape", ossia "la figura"), un'essere talmente assoluto nella sua malvagità da non poter essere compreso razionalmente. E Carpenter gioca con questa sua stessa mitologia esagitandone i toni, facendoci quasi credere ad una possibile follia di Loomis per il modo in cui descrive Michael. Solo per poi negare allo spettatore il sollievo della vista del suo cadavere, confermandone in modo terrorizzante la natura ultraterrena.
Un mostro privo di volto, coperto da una maschera monocromatica e monoespressiva (ricavata da una maschera realmente in commercio all'epoca, che riproduceva in modo grottesco le fattezze del giovane William Shatner), chiuso in un silenzio tombale che ne accentua l'imponenza e che si esprime solo ruotando il capo per meglio ammirare la propria opera assassina; ma il colpo di scena più forte forse non è neanche quello finale, quella conferma spiazzante sulla sua natura sovrannaturale, quanto quello in cui viene smascherato, celando il volto non di un demone o di un alieno, bensì quello di un normalissimo ragazzo, disvelandosi come l'incarnazione di un male certamente assoluto, ma altrettanto umano.




Facile è poi scorgere una vena sessuofobica in tutto il film, che portò perfino a tacciarlo, all'epoca, di puritanesimo. Michael uccide la sorella quando la vede copulare con il proprio amante e uccide dapprima Annie e Lynda, le due ragazze più disinibite, che si svestono in modo naturale, quasi meccanico; egli finisce così per incarnare, in un dato senso, la paura di una vendetta della società conservatrice verso quella libertà sessuale ottenuta agli inizi del decennio: il libertinaggio, così come la libidine, deve essere castigata con la morte; si potrebbe così pensare ad una critica della società conservatrice e bigotta che, spaventata dal nudo (allora come oggi) reagisce censurando quelle carni liberamente mostrate; se non fosse che a sconfiggere questo male è proprio una vergine, l'unica ragazza che sembra non aver mai avuto e che non consuma rapporti sessuali durante la notte di Halloween; facile allora trovare un altro significato sotterraneo all'opera di Carpenter, quella dell'innocenza che, vittima prediletta di una malvagità assoluta, si ribella e sfugge al suo carnefice, arrivando persino a ferirlo; il grande regista, dal canto suo, interrogato in merito si limiterà ad affermare come sia stata proprio la verginità della ragazza a darle la forza di impugnare per la prima volta un simbolo fallico per difendersi: l'astinenza sessuale, ossia il desiderio non appagato, è in tal senso l'arma più forte.




Al di là di ogni possibile interpretazione, "Halloween" è innanzitutto un perfetto esercizio di tensione, un meccanismo perfetto in grado di tenere incollato lo spettatore alla poltrona quarant'anni fa come oggi, che grazie al perfetto stile e alla costruzione eccelsa ammalia e spaventa al contempo.

1 commento:

  1. Un classico senza tempo, esempio di come il talento surclassi nettamente i grosso budget connle sole buone idee.

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