lunedì 24 giugno 2024

A Ciascuno il suo

di Elio Petri.

con: Gian Maria Volonté Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Laura Nucci, Mario Scaccia, Luigi Pistilli, Leopoldo Trieste, Giovanni Pallavicino, Salvo Randone.

Italia 1967

















---CONTIENE SPOILER---

"Mafia" è un termine dall'origine incerta. Si ritiene che sia nato come sinonimo di "miseria", ma anche di "altezzosità", due parole distinte, due immagini diverse che di certo ben si attagliano all'attività mafiosa, retta dai famosi "uomini d'onore" che radono al suolo tutto ciò che toccano per il proprio tornaconto.
Cosa Nostra, d'altro canto, non è stata neanche la prima associazione mafiosa presente sul territorio italiano, primato che spetta alla Camorra, a quanto pare. Quel che è certo è che le associazioni mafiose di origine siciliana sono assurte, nel corso dei decenni, a vero e proprio simbolo della criminalità organizzata nostrana e questo già prima delle stragi degli anni '80 e '90.
Non è chiaro quando in Italia si sia iniziato a parlare davvero di mafia. Quel che è chiaro è che per decenni c'è stata una forma di ritrosia nel riconoscere anche solo la semplice esistenza del fenomeno mafioso; e questo anche quando la Mattanza insanguinava ogni singolo angolo della Penisola.
Al cinema il termine si è affacciato poco alla volta per descrivere quella realtà che nel sud Italia esisteva già all'indomani della nascita del Regno d'Italia e che nel Secondo Dopoguerra aveva raggiunto una gravità inaudita. Se già Francesco Rosi ne La Sfida usava apertamente il termine "Camorra" per descrivere il crimine organizzato in Campania, sempre lui darà una prima e più veritiera immagine di Cosa Nostra in Salvatore Giuliano; è però con A Ciascuno il Suo che la mafia siciliana trova una delle prime esplicite rappresentazioni su schermo.



Alla base vi è il romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, pubblicato poco prima dell'entrata in produzione del film. E Sciascia aveva già trattato l'argomento mafioso nel celebre Il Giorno della Civetta, del 1961, il quale però troverà solo nel 1968 un adattamento filmico, pur essendo uno dei primi scritti in lingua italiana ad usare il termine "mafia". Termine che, almeno nella trasposizione filmica, in A Ciascuno il suo non trova spazio, senza che però ciò inifici la forza rappresentativa di storia e personaggi.
Perché alla fine quella scritta da Sciascia e portata in scena da Petri è una perfetta storia di mafia. Non quella mafia fatta da banditi che terrorizzano i deboli con la lupara e il ricatto (pur comunque presenti negli eventi), quanto quella mafia intesa come sistema di potere che trae forza dall'omertà condivisa dei luoghi nei quali ha origine. Una mafia fatta di colletti bianchi, di "rispettabili", persino di preti e vedove; quello che la caratterizza come tale è la prevaricazione, l'affermazione violenta degli interessi particolari su quelli generali, con il beneplacito di chi preferisce guardare dall'altro lato.
Lo spunto iniziale della storia è praticamente quello di un giallo: in un paesino in provincia di Palermo, il farmacista Arturo Manno (Luigi Pistilli), noto "femminaro", viene ucciso durante una battuta di caccia assieme all'amico Antonio Roscio (Franco Tranchina). Delitto subito etichettato come "d'onore". Ma il professore Paolo Laurana (Volonté), amico di entrambi, ha dei sospetti: le lettere anonime che Manno riceveva erano vergate usando pezzi de L'Osservatore Romano, lettura decisamente ostica per i sospettati, due contadini semi-analfabeti parenti della ragazzina da lui concupita. Decide così di indagare, andando a scoperchiare il classico vespaio.




La mafia è quella della provincia, quella che ancora uccide con la lupara piuttosto che con il tritolo. Un paragone fatto dallo stesso protagonista nella sua sortita palermitana, dove assiste ad un attentato a mezzo autobomba. Una mafia fatta di piccole persone con desideri ai limiti del miserabile, fatta di notabili piuttosto che di tagliagole e di omertosi piuttosto che di collaboratori veri e propri. Una mafia "dal volto umano" che si confonde con i vicini, con gli amici persino. Petri e Sciascia non celano più di tanto l'identità del mandante dell'omicidio, tantomeno la motivazione: questi altri non è che l'avvocato Rosello, interpretato con eleganza dal sempre ottimo Gabriele Ferzetti. Non un criminale di mestiere, quanto un "mammasantissima" che si unisce a Cosa Nostra per puro tornaconto personale. Il motivo del duplice omicidio? La volontà di sposare la bella cugina Luisa, andata in sposa al Roscio solo perché il loro zio monsignore era inizialmente contrario alle nozze. Il movente iniziale, quello dato dalla denuncia del Roscio dei suoi collegamenti con la mala è in realtà una pura aggravante, come specificato nel beffardo finale.



In questo contesto di piccola meschinità assortita, il Laurana è un personaggio fuori posto, strambo, quasi bizzarro, la cui umanità è sottolineata costantemente sia da Petri che da Gian Maria Volonté, il quale, pur avendo già collaborato in precedenza con i fratelli Taviani, inizia in realtà qui a divenire il volto più celebre del cinema dell'impegno civile.
Un personaggio, il suo, minuscolo: non un eroe, né un santo vista la sua attrazione morbosa per Luisa; di certo un idealista, perso com'è nella sua volontà di fare giustizia e persino deluso dal comportamento del PCI, già all'epoca colpevole di forme di tolleranza verso il male affare che solo decenni dopo daranno i loro frutti. 
Laurana è quasi un alter-ego di Sciascia, del quale incarna l'indole idealista, ma non quella disillusione sottintesa che spesso porta ad una visione pessimistica delle cose; lui, per motivi di racconto, non si arrende davanti alle intimidazioni, né davanti alla presenza di mafiosi veri e propri, continuando per la sua strada imperterrito alta fino alle estreme conseguenze, martire di un sistema dove la correttezza e il senso di giustizia si pagano con la vita, in un'esecuzione mafiosa che ricorda in parte quella con la quale anni dopo verrà ucciso Peppino Impastato.
Ma dove è lo Stato in questa storia di mafiosetti e omicidi? Qui, Petri tira la stoccata ad oggi più vibrante, ritraendolo come un'entità evanescente, che esiste, compare persino, ma non ha davvero nessun peso negli eventi.




I Carabinieri compaiono in appena un paio di scene, ossia quando i due imputati vengono condotti in carcere a mezzo jeep e quando l'ispettore interroga Laurana dopo aver effettuato le riprese dei signorotti al funerale di Roscio. Il minimo indispensabile, un'attività a dir poco marginale che analizza perfettamente il ruolo dell'autorità statale all'interno del gioco mafioso.
In una sequenza decisamente da antologia, ossia quella dell'autobomba a Palermo, Laurana ha poi un dialogo rivelatore con un amico onorevole, interpretato da Leopoldo Trieste, atto a testimoniare il ruolo, anch'esso inesistente, dei parlamentari nella lotta al malaffare di quegli anni. Un parlamentare abituato alla violenza, così come lo è stesso Laurana, che scherza sul fatto che sembra di essere finiti in un film di gangster, ma che quando viene confrontato sulla sua effettiva volontà di perseguire l'aggressività mafiosa, si rivela come un imbelle incapace, arrivando persino a questionare l'effettiva gravità di tali eventi.




Petri si approccia al romanzo in modo libero. La produzione del film, in tal senso, rispecchia perfettamente il suo atteggiamento verso la fonte di ispirazione. Il grande regista si trova infatti, all'indomani del pur ottimo La Decima Vittima, ad un bivio, sul piano artistico. L'esperienza con Carlo Ponti è stata difficile, soprattutto per le sue ingerenze, che hanno portato quella pur perfetta satira di costume a subire diversi compromessi.
L'idea di adattare il libro di Sciascia arriva poco alla volta e quando decide di trasporlo, lo fa in fretta, ma non in modo sciatto. Per la sceneggiatura collabora con Ugo Pirro, che da qui in poi diverrà suo collega abituale andando a sostituire Tonino Guerra. Ma nell'opera di trasposizione, modifica molti degli elementi caratterizzanti la storia, tanto che Sciascia vi si oppone apertamente, ricredendosi solo (e solo in parte) davanti al film finito. Questo perché, almeno inizialmente, Petri non vuole fare un film apertamente politico, un pamphlet con il quale attaccare la classe dirigente, quanto giocare con la struttura da romanzo giallo che già Sciascia tradiva, cosa che lui stesso aveva fatto con il suo esordio L'Assassino.
Di fatto, le variazioni rispetto al giallo classico sono diverse, a partire da quella risoluzione che non viene mai davvero celata; ma anche il progredire dell'indagine viene costruita in modo libero e persino a-logico, con quella lettera che indirizza Laurana al palazzo di giustizia la quale non si sa davvero da chi sia stata inviata.




Il racconto diventa così in tutto e per tutto quello di, nelle parole degli stessi notabili di paese, un "cretino", un uomo che si imbarca in un'indagine della quale tutti conoscono i connotati, tranne lui. Come già sottolineato, a contare non è il chi, forse neanche il perché, quanto il dove il delitto è stato commesso e chi vi si approccia.
Petri asciuga poi il racconto dalle derive grottesche più marcate, creando una narrazione più verosimile rispetto al passato (e a quanto farà in futuro con le sue opere più celebri), ma questo non significa che rinunci ad usare un tono comunque sopra le righe. Il mondo di A Ciascuno il suo è a suo modo iperbolico nella descrizione di personaggi dalle forme grottesche, come quei gentiluomini brutti e sgraziati dai capelli perennemente imbrillantinati o quella vedova bellissima e perennemente pronta allo svenimento; o anche quel Laurana, intellettuale sessualmente represso o incapace come molti dei personaggi di Petri, ma anche goffo e insicuro. 
Racconto che trova così un'espressività inedita che un registro totalmente realistico non avrebbe consentito, ma al contempo risulta vicinissimo alla realtà. Sensazione acuita dalla particolare costruzione della scena che la regia adotta, totalmente basata sugli obiettivi zoom; trovata che attirerà le ire di tanta critica con la puzza sotto al naso, che all'epoca della sua uscita stronca il film per il suo look da pellicola di genere, è in realtà anch'essa un'intuizione vincente: la macchina da presa finisce così per tampinare il suo protagonista, noi spettatori ne diventiamo complici in un gioco quasi voyeuristico, immergendoci al suo fianco in questa Sicilia più reale del reale. 


Rivisto oggi, A Ciascuno il suo ha sicuramento perso quella forza dirompente che lo caratterizzava nel 1967; il fenomeno mafioso si è evoluto sino alle estreme conseguenze, la mafia è divenuta tutt'uno con lo Stato e in tempi recenti si è persino arrivati a rivalutare alcune figure impegnate nella lotta alla criminalità organizzata che pur hanno sacrificato la loro vita per il bene comune. Un film che si limita a descrivere la mafia di provincia non ha di certo più la forza di generare scandalo o aprire le coscienze verso una realtà che si vuole rimuovere oggi forse più che mai.
Paradossalmente, la sua forza è proprio ancora oggi questa, ossia quella di ricordarci come la mafia sia un atteggiamento morale e mentale prima ancora di un fenomeno materiale, configurandosi come un film sicuramente datato, ma non obsoleto.

venerdì 21 giugno 2024

R.I.P. Donald Sutherland

 

1935 - 2024

Con circa duecento ruoli nel suo portfolio, Donald Sutherland è stato uno dei volti cardine del cinema americano e europeo degli ultimi sessant'anni. In grado di spaziare con efficacia tra un genere e l'altro, di imporsi all'attenzione anche in ruoli minuscoli e di lasciare un segno indelebile quando si è trattato di ricoprire quello di protagonista, il suo contributo al cinema è qualcosa di incalcolabile.



M*A*S*H* (1970)




E Johnny prese il fucile (1971)



Una squillo per l'ispettore Klute (1971)



A Venezia... un dicembre rosso shocking (1973)



Novecento (1976)








Terrore dallo spazio profondo (1978)

mercoledì 19 giugno 2024

Lumberjack the Monster

Kaibutsu no kikori

di Takashi Miike.

con: Kazuya Kamenashi, Nanao, Riho Yoshioka, Keisuke Horibe, Minosuke, Shido Nakamura, Kyohiko Shibukawa, Shota Sometani, Reon Yuzuki.

Giappone 2023
















---CONTIENE SPOILER---

Cercare di dire qualcosa di originale con la tematica ultra abusata del serial killer è impresa ardua anche per un regista navigato come Takashi Miike e "Lumberjack the Monster" è il suo tentativo di far dire qualcosa di diverso, benché non proprio originale, alla solita storia su di un killer mascherato inseguito dalla polizia. Il risultato non è certo memorabile, ma neanche disprezzabile.




Akira Ninomiya (Kazuya Kamenashi) è un giovane e brillante avvocato, il quale nasconde un segreto oscuro: è uno psicopatico assassino. Assieme ad un collega medico, infatti, si diletta ad uccidere innocenti per poi usarli come cavie da laboratorio. Il paradosso è però dietro l'angolo: per la città è a piede libero un killer mascherato che lo aggredisce. Sopravvissuto all'attacco, Akira scopre di avere un chip impiantato nel cervello, che sembra limitarne l'empatia. Si mette così sulle tracce del suo assalitore, mentre la polizia si affida per il caso alla bella profiler Arashiko Toshiro (Nanao).




Un serial killer miete le proprie vittime ispirandosi ad una favola per bambini su di un mostro che si traveste da uomo; sembra quasi di leggere la sinossi del Monster di Naoki Urusawa, se non fosse che l'ultima fatica di Miike altro non è se non l'adattamento di un romanzo di Mayusuke Kurai, divenuto un best-seller in patria giusto qualche anno fa. L'influenza del prolifico mangaka si limita a solo qualche sparuto elemento, visto che per il resto "Lumberjack" è una storia con un significato in parte diverso: entrambe narrano di assassini seriali creati dall'uomo, anche questo è vero, ma la struttura e in generale la storia imbastita da Kurai e portata in scena da Miike è totalmente differente, restando in territori decisamente più convenzionali.




Lumberjack the Monster è il più classico thriller con elementi di whodunit che si possa immaginare, con tanto di red herring dato dall'agente Inue e risoluzione catartica con annessa spiegazione dell'antefatto. A mancare è solo il body-count, lasciato sempre fuori scena, con la narrazione che si focalizza principalmente sui personaggi e la tematica sempiterna del concetto di male umano.
Il conflitto è dato da Akira e il suo misterioso persecutore, ma alla base di tutto, in una mezza citazione de Il Gatto a Nove Code di Argento, c'è una ricerca scientifica che ha portato all'isolamento dell' "elemento nel male" presente nell'uomo, in questo caso un chip cerebrale che blocca le funzioni di empatia per arrivare a creare dei veri e propri assassini. Akira è uno di questi "killer fatti in casa", sopravvissuto da bambino ad una coppia di scienziati pazzi ossessionati dalla possibilità di curare il figlio affetto da devianze criminale.
Quello di Akira diviene così un inedito percorso di redenzione, che lo porta dall'essere un assassino spietato e egoista (come esplicitato nella prima scena) ad un uomo dotato di empatia che arriva persino a sacrificarsi per la donna che ama.
Una commistione, quella tra thriller classico e derive fantascientifiche, che finisce per ricordare un altro celebre adattamento al quale Miike ha lavorato, quello di MPD Psycho, ma dal quale si differenzia per un'atmosfera molto meno cupa e morbosa.




In questo coacervo di intuizioni interessanti e derivatività tangibile, il buon Miike fa il suo dovere usando una costruzione della scena che finisce per ricordare tanto cinema americano piuttosto che quello nipponico. La sua mano, semmai, si avverte nell'uso del montaggio sonoro, con il commento musicale che cala quando il protagonista viene distratto per sottolinearne lo stato di alterazione mentale, così come nella descrizione della villa nella quale l'esperimento si è consumato, vera e propria reminiscenza di tanto giallo gotico anni '70, che forse non sfigurerebbe nell'adattamento di qualche opera più mainstream di Edogawa Rampo.




Per il resto, "Lumberjack the Monster" è un thriller canonico e privo di veri punti di interesse, che Miike porta anche in scena con meno svogliatezza del solito, ma che non riesce mai a rendere davvero interessante.

martedì 18 giugno 2024

R.I.P. Anouk Aimée

 

1932 - 2024

Con oltre novanta ruoli accreditati, Anouk Aimée è stata uno dei volti storici del cinema d'autore europeo, collaborando con artisti del calibro di Fellini, Lelouch, Bertolucci e De Sica.
Un attrice dal fascino particolare, bella ma impegnata in ruoli spesso non facili, volto di donne tormentate eppure vitali, personaggi oggi quantomai attuali.

venerdì 14 giugno 2024

La Cina è vicina

di Marco Bellocchio.

con: Glauco Mauri, Elda Tattoli, Paolo Graziosi, Daniela Surina, Alessandro Haber, Pierluigi Aprà, Claudio Trionfi, Laura De Marchi, Claudio Casinelli.

Italia 1967


















Impostosi al pubblico europeo con I Pugni in Tasca, Bellocchio, nel 1967, continua la sua disanima del malcostume celato nella vita privata degli italiani, restando nel territorio dello spaccato famigliare. 
La Cina è vicina, sua opera seconda, è in senso lato una sorta di espansione del nucleo tematico del suo esordio, che allunga lo sguardo dell'autore dalla famiglia nucleare alle dinamiche di quella "famiglia laica" che era ed è il partito politico. Uno sguardo al solito caustico, che parte dal presupposto di disvelarne le ipocrisie malcelate, ma che viene in parte limitato da una capacità di graffiare decisamente inferiore rispetto al primo film.




Bologna, anni '60. Vittorio (Glauco Mauri) è il primogenito di una famiglia di antiche origini nobili, ora neocandidato assessore comunale tra le fila del partito socialista; suo fratello Camillo (Pierluigi Aprà) è invece uno scavezzacollo radicale. Mentre la corsa verso le elezioni incede, Vittorio si scontra con il compagno di partito Carlo (Paolo Graziosi), politico di lungo corso nonostante la giovane età. Questi è poi attratto, ricambiato, dalla di lui sorella Elena (Elda Tottoli), ricca e annoiata, mentre Vittorio cerca di concupire la giovane segretaria Giovanna (Daniela Surina), ragazza di Carlo.




"La Cina è vicina", ovverosia "il pericolo è in arrivo", slogan vergato da Camillo sui muri del partito socialista, figlio di una visione rivoluzionaria figlia dei suoi tempi e che oggi fa sorgere un sorriso amaro. Slogan che Bellocchio riprende assieme a Elda Tottoli (con la quale collaborerà anche nel futuro Pianeta Venere) per creare una disanima dello stato delle cose nella politica di base.
La sinistra è rampante in quel di Bologna; la rabbia dei giovani non è ancora sfociata nelle proteste sessantottine, ma è già presente, limitata agli scontri interni allo stesso schieramento, o, anche, tra singoli rappresentanti di partito. Il conflitto nasce così tra Vittorio e Carlo, con in mezzo i due interessi amorosi e lo scapestrato Camillo a fare da elemento di disturbo ulteriore.




Vittorio è la classe conservatrice che si è riciclata, un vero e proprio populista che (come si scopre nel comizio finale) ha attraversato come una meteora praticamente tutti i partiti per cercare di affermarsi sul piano politico; nobile, laureato (qui si avverte il gap con un'epoca nella quale il titolo di studio era sinonimo di elitarismo) e forbito, è un ipocrita lontano anni luce dal suo corpo elettorale, che si riempie la bocca di frasi elaborate le quali celano solo la sua innata incapacità. Al suo opposto c'è Carlo, vero e proprio proletario, giovane ma non imberbe (a differenza di Camillo), sprovvisto di una cultura certificata, ma perfettamente in grado di interfacciarsi con il popolo i cui interessi dovrebbe curare.
Lo scontro tra questi veri e propri mondi viene colorato da Bellocchio con note di sarcasmo, come nella sequenza nella quale un imbelle Vittorio viene formalmente linciato dalla folla durante un comizio di paese o come quando decide di fare sua Giovanna solo per provare la sua mascolinità. Vittorio è e resterà per tutta la durata un incapace, un omuncolo con modi da grande uomo, un miserabile che si salva solo grazie al titolo e all'affermazione sociale. Peggio di lui, c'è solo Camillo, ragazzetto esagitato privo di veri ideali ma pronto a qualsiasi cosa pur di contestare lo status quo, solo per poi tornare in seno alla famiglia e alla Chiesa, quell'istituzione che dovrebbe deprecare in quanto esponente della sinistra anche radicale, ma sotto la cui ala sembra trovarsi fin troppo bene.
E le due donne? Come il finale sottolinea, non sono che delle figure ancillari, proprietà da custodire e madri il cui ruolo va salvaguardato a prescindere dalla loro volontà.




Se questa famiglia di orgogliosi conservatori travestiti da progressisti rappresenta quell'ipocrisia atavica che appestava (come appesta tutt'oggi) il costume italiano, Bellocchio e la Tattoli non riservano certo uno sguardo più benigno nei confronti del "compagno" Carlo, anch'egli modernista solo sulla carta, un conservatore di fatto che non tiene minimamente in conto la volontà della donna e che in fin dei conti altro non è se non un conclamato arrivista, in grado di condannare il prossimo ad una vita non voluta pur di sistemarsi.
La visione al vetriolo di questo para-rivoluzionario anch'egli ancorato al passato conservatore e cattolico è del tutto complementare a quella del conservatore che finge di rinnovarsi; ed è a sua volta completata dal ritratto dei giovani furiosi, tutte maschere di un impegno politico che in un modo o nell'altro è di pura facciata, che non riesce a nascondere un'anima vacua, una mentalità del tutto egoistica travestita da impegno verso il prossimo.




Nella messa in scena, Bellocchio torna a sperimentare un montaggio veloce, il cui ritmo è incrementato dagli inserti che spezzano le singole inquadrature. La visione è sempre incalzante, ma meno radicale rispetto a I Pugni in Tasca. Sensazione che si avverte, per forza di cose, in tutto il racconto: le derive grottesche, benché gustose, finiscono per spuntare la cattiveria di storia e personaggi anziché renderle più acute; le immagini e le scene migliori sono certamente da antologia, come l'assalto all'auto, il finto attentato alla sede del partito socialista o il finale con l'attentato del gattino lanciato in testa ad un Vittorio impegnato in un discorso populista, ma in generale non si percepisce mai davvero quel grado di cattiveria che si ricerca, in un racconto completo e riuscito, che però non graffia più di tanto.




Tanto che si potrebbe quasi del classico esempio di opera seconda che non conferma il talento mostrato nell'esordio. Se non fosse che La Cina è vicina ha comunque dalla sua parte una innata capacità di rappresentare le dinamiche interne della sinistra in modo veritiero e tutt'oggi attuale; oltre al fatto che, forse, riuscire a bissare era davvero un'impresa impossibile da compiere.

lunedì 10 giugno 2024

Kinds of Kindness

di Yorgos Lanthimos.

con: Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley, Hong Chau, Mamoudou Athie, Hunter Schafer, Yorgos Stefanakos, Tessa Bourgeois, Krystal Alayne Chambers.

Irlanda, Regno Unito 2024
















A partire da The Lobster e fino a Povere Creature!, Lanthimos ha deciso di portare in scena una serie di racconti meno ottusi e più vicini alla comune sensibilità dello spettatore, almeno per quanto riguarda la loro intellegibilità. Kinds of Kindness, vero e proprio progetto segreto portato avanti quasi di concerto con il film premiato a Venezia 80, riporta invece il suo cinema alle coordinate originali, con un trio di racconti (che in realtà formano un'unica narrazione) decisamente più vicini al quel suo primo cinema che, tra Kynodontas e Alps, era stato in grado di creare storie tanto sconvolgenti quanto volutamente fredde.
Torna quindi la penna di Efthimis Filippou (assente dai tempi de Il Sacrificio del Cervo Sacro) così come l'influenza di Haneke a livello di messa in scena, dove spariscono i grandangoli stroboscopici in favore di altri decisamente più contenuti ed un distacco maggiore rispetto alla storia. E tornano praticamente tutti i suoi temi, in un coacervo tanto visto quanto riuscito.




Si torna così ad un racconto fatto di personaggi mostruosi nella loro estrema umanità, resi orribili dai bisogni impellenti propri dell'essere umano. Bisogni che qui si sostanziano nella necessità di appartenenza, nel bisogno di sentirsi parte di qualcosa di più della singola individualità. Come la famiglia di Kynodontas, anche i rapporti umani di Kinds of Kindness finiscono per sostanziarsi in una forma di manipolazione che degenera nella violenza, in un contesto nel quale l'assurdità del caso finisce per castigare chi cerca di salvarsi.
Tre episodi che compongono di fatto un'unica storia, dove i personaggi di Emma Stone e Jesse Plemons iniziano agli antipodi per scambiarsi gradualmente i ruoli. E dove il misterioso R.M.F. (Yorgos Stefanakos) finisce per fare da trait d'union nelle tre storie.
La prima è la più vicina a quella sensibilità fassbinderiana che l'autore greco aveva già dimostrato in passato: Robert (Plemons) vive una vita cucitagli su misura dal suo capo Raymond (Dafoe), con il quale intrattiene anche uno strano rapporto a tre assieme alla di lui compagna (Margaret Qualley). Alla richiesta di questi di causare un incidente mortale ai danni di un compiacente R.M.F., Robert decide di troncare il rapporto al fine di evitare conseguenze letali.
La seconda è anche la più convenzionale: il poliziotto Daniel (Plemons) entra in crisi a seguito della scomparsa della moglie Liz (la Stone), biologa marina dispersa in mare durante una spedizione di lavoro; ritornata a casa, Daniel inizia a sospettare che si tratti in realtà di un'impostora.
L'ultima storia è anche la più articolata: Emily (la Stone) è membra di una setta new age alla disperata ricerca del proprio messia, che dovrebbe essere in grado di resuscitare i morti; ancora attaccata alla vita che aveva prima di entrare nel culto, entra in crisi quando viene ne viene scacciata.




L'essere umano ha un bisogno innato di inclusione. Da solo, l'uomo non può gestire le coordinate della propria esistenza, senza un punto di riferimento è un corpo che vaga disperso tra necessità e solitudine. Ma appartenere a qualcosa o a qualcuno vuol dire essere subordinato ad esso, esserne dipendente, vivere in sua funzione. Chi accoglie qualcuno esercita su di lui un potere e chi esercita tale potere è un dio onnipotente che può fare o disfare a piacimento una vita. L'amore, di conseguenza, non è che una forza distruttiva atta a piegare l'essere umano ai voleri di chi esercita tale forza di attrazione. Chi necessita amore e controllo è incontrovertibilmente subordinato alla volontà di un amante/demiurgo che ne controlla la vita, verso il quale ha una reverenza religiosa, tanto che per tornare nelle sue grazie è necessario un sacrificio umano.




Un uomo che ha bisogno di qualcosa di altro al quale partecipare, qualcosa di più grande, di trascendentale; e quando ciò è assente, viene ricercato ossessivamente e a sua volta coartato al ruolo di controllore. Il divino, di conseguenza, altro non è che un costrutto dovuto alla necessità di appartenenza dell'umano. La religione, suo corollario, è una società nella società nella quale l'uomo necessita un posto, ma che di per sé stessa altro non è se non un vacuo crogiolo di tic, superstizioni e cerimoniali inutili, atti solo a dare dei punti cardinali per orientarsi in un mondo altrimenti alieno. Corollario del quale tale presenza trascendete necessita al fine di poter "ordinare" la vita dell'essere umano, senza il quale resta presenza ignota.
Su tutto però vige l'ombra del fato. Come nella tragedia classica, gli uomini, per quanto si sforzino, sono sempre schiavi del destino, il quale si rivela beffardo, come in quel finale dove un sorriso sadico chiude una ricerca disperata nel peggiore dei modi. 




Lanthimos porta tutto in scena proprio come una tragedia classica, come avveniva ne Il Sacrificio del Cervo Sacro. E proprio come esplicitato nel finale, narra il tutto con piglio ironico, inserendo nel testo delle venature di grottesco che lo rendono ancora più tragico. La sua è una farsa che però i personaggi vivono come un dramma, la fusione di due registri che opera in maniera più sottile rispetto a La Favorita e Povere Creature! e forse proprio per questo in modo più efficace, andando a fondere la drammaticità funebre (benché anch'essa latamente grottesca) delle sue prime opere con la cattiveria divertita delle ultime.
Un'efficacia di tono che trova però un limite nel racconto stesso. Il grande autore greco, di fatto, non crea nulla di nuovo, si limita a riportare in scena una visione pessimistica alla quale aveva già dato completo corpo in passato. Kinds of Kindness funziona perfettamente come nuova incarnazione delle ossessioni e delle tematiche proprie del suo cinema, ma paga lo scotto di essere arrivato più in là nella sua carriera, in una fase dove l'apice della provocazione è già stato raggiunto. La violenza qui ritratta non riesce così ad essere disturbante quanto vorrebbe, così come la sessualità spinta di alcuni personaggi.




Pur nella sua incapacità di graffiare quanto dovrebbe e nella sua intrinseca frammentarietà, l'ultima opera di Lanthimos si configura lo stesso come una piccola provocazione tutto sommato riuscita, una fusione delle due fasi della sua carriera con la quale fa il punto della situazione, forse alla vigilia di una possibile svolta.

mercoledì 5 giugno 2024

Godzilla Minus One

Gojira -1.0

di Takashi Yamazaki.

con: Ryunosuke Kamiki, Minami Hamabe, Sakura Ando, Rikako Miura, Munetaka Aoki, Kuranosuke Sasaki.

Catastrofico

Giappone 2023














---CONTIENE SPOILER---

Arrivare a settant'anni di carriera, costellati per di più da una quarantina di film e un'infinità di altre incarnazioni multimediali, è un record non da poco persino per un'icona pop. Record raggiunto da Godzilla, che con "Minus One" tocca 33 film escludendo le produzioni americane e che proprio grazie a questa sua ultima apparizione ha superato ulteriori record. "Minus One" è infatti il film giapponese sul godzillosauro di Ishiro Honda di maggior successo della storia, oltre il primo ad essere stato premiato con l'Oscar, ottenuto per gli effetti visivi, di caratura davvero ottima se si tiene conto di come il budget per l'intero film sia l'equivalente di appena 15 milioni di dollari.
"Minus One" è anche il film creato per celebrare il 70°anniversario del Re dei Mostri, riconnettendosi tra l'altro direttamente alla sua prima incarnazione, della quale è una sorta di re-immaginazione. E come film celebrativo che ricrea per l'ennesima volta la figura e la valenza del signore dei Kaiju, è un film tutto sommato riuscito, oltre che davvero spettacolare.




Il setting è pressoché inedito, ossia la fine degli anni '40. Il Giappone è rimasto annichilito dalla Seconda Guerra Mondiale e si trova in una specie di anno zero, con la popolazione stremata e ridotta alla miseria e l'orgoglio nazionale annientato. In questo contesto, il giovane Koichi Shikishima (Ryunosuke Kamiki, già visto in As the Gods Will e nell'adattamento di Le Bizzarre Avventure di JoJo di Miike) è un ex aviatore kamikaze che ha deciso di disertare la missione suicida. Sull'isola di Oda, subisce l'attacco di un Godzilla non ancora mutato, dal quale si salva a stento. Anni dopo, Godzilla ritorna ingigantito dalle radiazioni dei test atomici americani, mettendo a repentaglio quel poco che Shikishima e quelli come lui sono riusciti a ricostruire.




Il Giappone come tabula rasa, Godzilla come forza della natura pronta a portare ancora più in basso un paese già distrutto (da cui il -1 del titolo). Laddove nel classico del 1954 esso rappresentava la paura dei test atomici e di una corsa agli armamenti ossessiva, ora il kaiju è una vera e propria nuova guerra pronta ad annientare del tutto quel poco che è rimasto in piedi o che si è riuscito a riedificare.
"Minus One" è così un film sul Giappone e sul suo popolo, sulla sua  forza d'animo e resilienza che lo porta a superare difficoltà apparentemente insuperabili. Un film patriottico nel senso migliore del termine, creato per celebrare sia l'incarnazione della paura della distruzione definitiva, sia e soprattutto chi non si arrende a tale distruzione. 
Eppure, un film patriottico che, essendo stato prodotto ottant'anni dopo il periodo storico che vuole descrivere, finisce per essere anche vagamente posticcio. Perché di sicuro è posticcio quel colpo di scena nell'epilogo, che rende il finale fin troppo lieto, rasentando i limiti del ridicolo. Così come posticcia è la descrizione della Tokyo dell'immediato secondo dopoguerra, dove tutti i cittadini sono fin troppo buoni e pronti ad aiutarsi a vicenda, ritratto che cozza con le testimonianze di quegli autori che hanno davvero assistito al caos del dopoguerra.



Il dramma dei reduci di guerra viene descritto dall'arco narrativo di Shikishima, praticamente quello di un ronin che deve ritrovare l'onore perduto; ed è qui che il film ha corso il rischio maggiore, ossia quello di idealizzare la figura del kamikaze. Se inizialmente il racconto abbraccia totalmente il punto di vista di quei ragazzi che si rifiutavano di farsi esplodere in guerra a neanche vent'anni, descrivendo tra l'altro con efficacia il PTSD di cui sarebbero stati afflitti, man mano che la narrazione incede sembra voler parteggiare con un sistema che ha utilizzato il concetto feudale d'onore per manipolare le masse fino al massacro, facendo inseguire al suo protagonista l'onore perduto in battaglia. 
Un racconto reazionario? Sicuramente, ma il cattivo gusto è fortunatamente evitato sia quando i reduci più anziani impediscono al più giovane di partecipare al confronto finale con il mostro, sia quando si lascia che lo stesso protagonista decida volontariamente di evitare il suicidio in battaglia.




La sindrome da stress post-traumatico che affligge Shikishima, al contrario, viene descritta con dovizia di particolari e in modo verosimile. La paura della guerra si sostanza nell'incapacità di premere il grilletto persino contro un dinosauro, il senso di colpa del sopravvissuto prende la forma degli incubi notturni. In tale contesto, Godzilla è la guerra, la distruzione insensata e incontenibile contro la quale il singolo è del tutto impotente. Non per nulla, praticamente per la prima volta al respiro atomico del mostro segue un'esplosione a forma di fungo che fa piovere una pioggia nera sul protagonista, in una metafora sin troppo chiara.




In cabina di regia, l'eclettico Takashi Yamazaki esegue il proprio compito con estrema onestà e professionalità. Certo, non ha né la reverenza da otaku di Hideaki Anno per l'originale, né l'indole folle di Ryuhei Kitamura, ma le sue intuizioni di messa in scena sono spesso vincenti. Su tutte, quella di ambientare i primi incontri con la versione mutante di Godzilla in acqua, in modo da aumentare il tasso di tensione e disperazione della scena, poi diretta con piglio fermo, con un risultato adrenalinico e spettacolare. Quando poi si tratta di portare in scena tutto il potere distruttivo del kaiju nell'attacco a Ginza, la regia non si risparmia e si assiste a quella che davvero può essere descritta come una versione moderna della sequenza distruttiva del primo film, dove l'indole nostalgica prende le belle forme dell'uso della musica originale.




Come nuova incarnazione del Godzilla originale, "Minus One" è sicuramente una pellicola spettacolare e riuscita nell'intento di ricreare ciò che esso rappresentò per il pubblico della metà degli anni '50. Come spaccato d'epoca, soffre a causa di un'idealizzazione un po' forzata. In generale, un buon esponente del filone kaiju, ma non il capolavoro che in molti osannano.

lunedì 3 giugno 2024

La Decima Vittima

di Elio Petri.

con: Marcello Mastroianni, Ursula Andress, Elsa Martinelli, Salvo Randone, Massimo Serato, Milo Quesada, Luce Bonifassy, George Wang, Walter Williams, Pier Paolo Capponi.

Fantastico/Commedia/Grottesco

Italia, Francia 1965
















Petri è stato certamente uno degli esponenti più acuti del cinema civile italiano, attraverso il quale ha dato uno spaccato impietoso della società contemporanea. Eppure, c'è un altro merito da riconoscergli e sul quale spesso involontariamente si glissa, ossia quello di aver creato, con "La Decima Vittima", uno dei film più avveniristici che il cinema italiano abbia mai concepito e, forse, uno dei più avveniristici in generale.
Frutto della collaborazione con Carlo Ponti, per il quale ha praticamente diretto un adattamento del romanzo "La Settima Vittima" di  Robert Sheckley, Petri non si è limitato a ricoprire il ruolo di regista  su commissione, ma ha fatto completamente suo il progetto iniettandovi il suo stile grottesco, affiancando alla satira sociale la disanima sugli orrori del matrimonio, ma al contempo lasciando intatta una visione distopica che, oggi, è stata ripresa innumerevoli volte da film ben più famosi e al contempo meno efficaci.




In un futuro imprecisato, la violenza è stata legittimata per il tramite de "la Grande Caccia", uno sport utilizzato per far sfogare gli istinti omicidi dei comuni cittadini al fine di evitare conflitti su larga scala. Le regole sono semplici: gli iscritti si dividono in cacciatori e prede, alternandosi nel ruolo e venendo accoppiati a caso da due supercomputer situati a Ginevra. Chi riesce a sopravvivere ad una caccia vince un premio in denaro e chi riesce a sopravvivere a dieci vince il gioco, ricevendo in cambio un milione di dollari e tutta una serie di benefici fiscali, oltre che la fama imperitura.
L'americana Caroline Meredith (Ursula Andress) è appena sopravvissuta alla sua nona caccia. Per la decima e ultima, viene selezionata come cacciatrice dell'italiano Marcello Poletti (Mastroianni), alla sua settima. Lo scontro si tiene a Roma, sotto gli occhi vigili delle telecamere degli sponsor.




Partendo da un setting fantascientifico, Petri estremizza oltre i limiti del grottesco le contraddizioni della società italiana degli anni '60, ma piuttosto che creare un film datato (o per lo meno completamente datato) riesce, al contrario, ad anticipare diverse intuizioni sia fantastiche che metaforiche a venire.
Si parte ovviamente dalla caccia, mutuata dal romanzo di base. La violenza non è più sanzionata se utilizzata all'interno di un dato contesto e, anzi, la società sprona i cittadini ad uccidersi a vicenda. La mente non può che correre all'infinita serie di "The Purge", così come al giustamente dimenticato "Zebraman 2- Attack on Zebra City" di Miike, dove lo stesso concetto veniva al contempo esteso e limitato; e questo solo per citare le pellicole dove l'influenza è più avvertibile, tanto che si potrebbe contare anche il mai dimenticato "Death Race" di Corman oltre che il classico "Rollerball" e persino il muscolare "The Running Man". La caccia viene poi usata per sponsorizzare dati prodotti e i partecipanti, soprattutto i vincitori, divengono delle superstar, come in "Hunger Games". Perfino la trovata più volutamente pacchiana, ossia il bikini-mitra, è stato ripreso e omaggiato, con superiore spirito grottesco, nel mai troppo lodato "Austin Powers- Il Controspione", la cui versione esagerata dell'estetica anni '60 si rifà apertamente al film di Petri.




Quello ritratto è un mondo distopico e in teoria cupo, che Petri illumina di una luce grottesca la quale, soprattutto nei minuti iniziali, non ne smorza la componente spaventosa, che anzi finisce per esserne accentuata. E piuttosto che ricostruire questo mondo in scenografie impossibili, decide di immergerlo nelle location (all'epoca) più moderne, fatte di costruzioni para-brutalistiche di cemento e vetro, le quali, appaiate a quel look futurista di tanta moda anni '60, concorrono a creare un'estetica pacchiana ma anche elegante, incredibilmente "hip", la quale, rivista oggi, finisce paradossalmente per donare a tutto il film una parvenza di modernità ulteriore piuttosto che renderlo datato, forse proprio a causa del tono grottesco della narrazione.
Se, infatti, all'inizio "La Decima Vittima" potrebbe davvero essere una sorta di thriller fantascientifico canonico, man mano che la storia prosegue lo sguardo di Petri si fa sempre più distaccato e anziché descrivere questo pazzo mondo futuro/contemporaneo con un cipiglio pesante, lo fa con una risata beffarda, andando ad infilare il dito in ferite ancora oggi sanguinanti, ossia la mercificazione dell'essere umano nella società capitalistica, la perdita di qualsivoglia valore umano e etico e la guerra tra sessi.




Nel futuro de "La Decima Vittima", i valori umani e morali non esistono. La glorificazione della violenza è solo il sintomo più evidente di un cinismo del tutto interiorizzato dal tessuto sociale e, prima ancora, dall'individuo. I singoli non hanno idee, né ideali se non quelli dati dal denaro e dall'affermazione personale. Tanto che persino la spiritualità viene prima dimenticata, poi reinventata e mercificata, con il culto dei "tramontisti" che venerano il sole calante per il lucro di Marcello; soggetti allo sbando pronti ad attaccarsi a qualsivoglia credenza pur di colmare un vuoto interiore, vengono sbeffeggiati da un pugno di antagonisti che ne ridicolizzano il bisogno di valori. Alla fine della fiera e nell'economia dello spaccato futuribile, forse le vere vittime della degenerazione sociale sono proprio questo pugno di comparse sfruttate e insultate per i loro bisogni, che perfino Petri, in coerenza con la sua formazione politica, decide volontariamente di dimenticare, enfatizzando piuttosto il ruolo squallido del suo protagonista, ministro di un culto nato come truffa.



A trionfare, semmai, è l'idea del profitto, sia esso economico o emotivo. Da questo punto di vista, tra Caroline e Marcello è quest'ultimo ad essere la figura più mostruosa, un uomo svuotato di ogni passione (anche a causa dei fallimenti coniugali), la cui vacuità è controbilanciata solo dal gusto estetico (clamoroso il look di Mastroianni, che sfoggia anche un inedito capello biondo platino) e dalla passione per quella arte popolare ora divenuta d'essai, con i fumetti della King Features divenuti opere d'arte in una precognizione di quanto sarebbe accaduto negli anni '90; è altresì forse afflitto persino da una forma di impotenza malcelata tramite la poca passione che riversa nella caccia e si trascina interessato unicamente al guadagno insito in ogni singola attività connessa all'omicidio. 
Intorno a lui e alla sua cacciatrice, quel nugolo di individui pronti a lucrare sulla violenza. Da questi, Marcello quasi non si differenzia e, anzi, risulta persino più squallido quando si scopre la sua funzione di guru da strapazzo. Eppure, Petri guarda a questo simbolo di una modernità disumana con piglio patetico, descrivendolo come una persona triste e stanca; è un caso che abbia lo stesso nome del protagonista de "La Dolce Vita"? Non per nulla, alla fine del capolavoro di Fellini anche il suo Marcello scivolava in una forma di depressione cinica. 
Pur non descrivendolo in modo benigno, Petri concede lui una profondità apparentemente stridente con ciò che rappresenta, quando si scopre che, in barba alla legge, non vuole consegnare i genitori allo Stato, in un mondo dove anche la vecchiaia è considerata come un errore da punire. Il suo gesto è un atto di ribellione, non tanto di amore filiale, uno sputo in faccia ad una regola imposta in modo coercitivo. Il suo ruolo è quindi quello di un ribelle? La risposta è quantomai complessa.




Marcello è perfettamente inserito nel sistema di non-valori che società futuribile predica. E' cinico e non riesce a portare avanti una relazione con nessuna delle sue partner, tanto che il conflitto principale con Caroline assume le forme di una seduzione nella quale il maschio braccato non vuole cedere alle avances per evitare di doversi impegnare sia sentimentalmente che economicamente. 
Marcello accetta passivamente gli orrori della Grande Caccia e usufruisce della generale mancanza di morale per il proprio guadagno. Non si ribella al sistema, le cui storture sembrano andargli a genio finché può usarle a suo vantaggio. Allora perché non fa uccidere i suoi genitori? Forse semplicemente perché non ne trarrebbe profitto alcuno, da cui la percezione della legge sulla soppressione degli anziani come ingiusta.
In tal senso, Marcello è la perfetta incarnazione dell'italiano medio, una figura meschina e individualista che riesce a pensare solo al proprio benessere e si ribella al sistema dominante solo quando questo atto può effettivamente garantirgli un vantaggio materiale o quando l'atto di ribellione in sé sia rivolto contro una coercizione ritenuta materialmente inutile. Sessant'anni fa personaggi del genere diventavano brigatisti per puro ludibrio personale, oggi si ribellano all'uso del POS nei negozi solo perché è lo Stato a consigliarne l'utilizzo. 
La depressione deriva così unicamente dalla perdita del benessere materiale, rappresentata dalla ex moglie e dall'amante che lo braccano in cerca di denaro e del contratto matrimoniale. Da cui l'astio verso l'istituzione del matrimonio.




Il matrimonio, ne "La Decima Vittima" è un contratto di puro interesse che incatena l'uomo e lo svuota di ogni virilità, in una presa di posizione che forse avrebbe fatto le gioie di John Cassavetes e Marco Ferreri. Il matrimonio è la classica "tomba dell'amore" nella quale vengono sepolti tutti i veri sentimenti, sostituiti dal mercimonio dei beni materiali; la donna, di conseguenza, è una mera cacciatrice di dote assetata del benessere materiale, mentre l'uomo è un essere rimasto privo di ogni valenza emotiva e persino carnale, non più un maschio ruspante quanto una sorta di "bancomat semovente".
La figura della donna (ed è qui che Ferreri avrebbe obiettato) è così quella di una cupida assettata di benessere, il cui ruolo consiste nel depredare un maschio che è pura stanchezza. Una donna selvaggia e volitiva, ma anche forte e determinata, da cui il perfetto casting di Ursula Andress, valchiria dal fisico imponente pronta a schiacciare il minuto Mastroianni. Nella guerra dei sessi, per Petri, esistono un sesso forte e uno debole, i cui ruoli non sono scontati. Il suo biasimo non è però rivolto alla guadagnata posizione di predatrice della donna, quanto all'istituzione matrimoniale in sé stessa e alla paura che essa esercita sul maschio, decisamente attaccato ai beni materiali. Da cui quel finale dove il grottesco sconfina nel demenziale, un incubo surreale dove l'imbelle e patetico maschio riceve il meritato castigo.




La forza e la bellezza de "La Decima Vittima" sono tutt'oggi apprezzabilissimi. Una metafora tanto divertita quanto penetrante posta all'interno di un contesto sci-fi intrigante, in una pellicola da riscoprire anche solo per capire come anche il cinema italiano possa fare ottima fantascienza.