venerdì 28 giugno 2024

Lupin III- La Pietra della Saggezza

Rupan Sansei

di Soji Yoshikawa & Yasuo Otsuka.

Animazione/Surreale

Giappone 1978




















Tra le innumerevoli incarnazioni animate del Lupin di Monkey Punch, quella che ha ricevuto più plauso è stata (giustamente) Il Castello di Cagliostro. Eppure, l'esordio alla regia nel lungometraggio del sensei Miyazaki non è certo l'incarnazione più precisa del ladro gentiluomo dalla giacca sgargiante.
Se c'è una trasposizione filmica che ha invece il merito di catturare alla perfezione l'essenza del manga, questa è senza dubbio la prima in assoluto (prima in animazione, ovviamente), quel La Pietra della Saggezza che nel 1978 sancì il passaggio di Lupin III da piccolo fenomeno televisivo a vera e propria icona pop in patria.



La storia della produzione del film è presto detta: a seguito della riscoperta della prima serie animata da parte del pubblico, Tokyo Movie Shinsha mette in cantiere una seconda serie, che resta tutt'oggi la più celebre, ossia quella "con la giacca rossa"; contemporaneamente viene messo in produzione anche un film d'animazione, il primo con protagonista Lupin III, ma non il primo film cinematografico in assoluto per il personaggio, visto che qualche anno prima era uscito La Strana Strategia Psicocinetica, sua prima versione live-action poi divenuta uno scult anche presto dimenticato.
La produzione del film finisce però per protrarsi oltre il dovuto e il motivo è anche imbarazzante: praticamente nessuno degli autori della prima serie è disponibile per ritornare. Miyazaki e Isao Takahata, in particolare, sono alle prese con la produzione del capolavoro televisivo Conan il Ragazzo del Futuro e riusciranno a rimettere le mani sulle avventure del ladro gentiluomo solo qualche anno dopo.




Con le nuove leve tutte impegnate nella produzione della serie tv, il film finisce nelle mani di un gruppo di animatori esterni, guidati dal mitico Yasuo Otsuka come sempre nelle vesti di direttore dell'animazione, ma il cui contributo finisce per estendersi anche alla concezione artistica, divenendo così parte essenziale nella direzione.
Alla regia viene chiamato Soji Yoshikawa, veterano del mitico studio Mushi Production di Osamu Tezuko, mentre alla sceneggiatura c'è Atsushi Yamatoya, che qualche anno prima aveva firmato gli script di alcune delle più celebri pellicole di Seijun Suzuki; e questo collegamento è in realtà essenziale per comprendere il tono del film.
Tono che è praticamente quello del manga, vicinissimo al cinema di genere degli anni  '60 e '70, cosa che giusto qualche anno prima sarebbe stato impossibile: la prima serie televisiva aveva dovuto edulcorare parecchio i toni originali, tanto che il pilot creato come prova di concetto da Miyazaki e soci in origine fu rigettato da TMS perché ritenuto impossibile da trasmettere. Nella seconda metà degli anni '70, quei film oggi definibili come "pulp" dominavano il botteghino nipponico e quel pilot era divenuto automaticamente vendibile, soprattutto in sala. Yoshikawa e Yamatoya riprendono così quanto fatto a inizio decennio e lo espandono, costruendoci attorno una storia strampalata e gustosamente bizzarra.




Lupin III è morto, giustiziato a mezzo impiccagione in Transilvania. Morte che però non convince il mastino Zenigata, che ne viola la tomba (situata in un castello, in una notte buia e tempestosa) per trovarlo vivo e vegeto.
Ritroviamo Zenigata e Lupin in Egitto, dove il ladro, assieme al fido Jigen, discute di questo strano episodio. I due sono sulle tracce di una pietra a prima vista innocua, ma che si rivela essere la mitologica pietra filosofale ("pietra dell'uomo saggio" nella versione italiana). Il furto del mcguffin è nato dalla volontà di Lupin di andare a letto con Fujiko, che le ha commissionato il colpo ovviamente, ma la quale a sua volta lavora per Mamo, un misterioso individuo dai poteri apparentemente divini.




Un Lupin che sembra uscito direttamente dalle pagine del manga, quello de La Pietra della Saggezza; a partire dal design, del tutto simile a quello di Monkey Punch, con le proporzioni sballate e l'estrema espressività dei volti. Ma, ancora più, è la storia ad essere strutturata come una sua classica avventura a fumetti, ossia come una seri di inseguimenti che culminano con un confronto finale con il cattivo di turno. Ogni sequenza è così basata sulla caccia al prezioso, la caccia alla donna, la caccia al ladro. Ogni azione viene poi gonfiata fino all'iperbole, divenendo improbabile, apertamente cartoonesca, come un episodio di Tom & Jerry (non per nulla tra le ispirazioni del manga) con personaggi umanoidi.
La regia fa poi un passo in più a tratti sconfina direttamente nei territori del lisergico, con alcune sequenze altamente visionarie e surreali. Su tutte, è ovviamente quella nella quale Lupin si risveglia nel quartier generale di Mamo ad essere  clamorosamente onirica, con il protagonista che inizia di punto in bianco a viaggiare tra le architetture di Escher e i quadri di De Chirico e Dalì; ma per tutto il film è avvertibile la volontà di creare un'avventura lontana da tutti i canoni di verisimiglianza, vicinissima al gusto surrealista di tanto cinema di genere, sia esso di animazione e non; il che gli dona un'indole altamente originale, prima ancora che gustosa.




La storia, d'altro canto, è quanto di più ordinario possibile, con un supercattivo bondiano intenzionato conquistare il mondo tramite la creazione di una nuova civiltà super-perfetta e Fujiko a ricoprire il ruolo di bella da salvare, per quanto sempre caratterizzata come una femme fatale doppiogiochista. Persino la trovata del doppio Lupin e la correlativa ambiguità sull'identità di quello che fa da protagonista viene liquidata in quattro e quattr'otto, senza darle il giusto peso.  
A far funzionare tutto è quindi, oltre alla messa in scena, la caratterizzazione dei personaggi e le relative dinamiche, davvero accattivanti. Lupin, Jigen e Goemon sono tre amiconi il cui rapporto è quello dell'amicizia virile, tre adulti che tengono l'un l'altro come a dei fratelli; ognuno a modo suo, ovviamente, con Goemon chiuso in sé stesso e che si esprime con aforismi rivolti a criticare la libidine selvaggia di Lupin e Jigen, qui un anarchico convinto, che si oppone al suo rapporto "tossico" con Fujiko, ma è lo stesso sempre pronto a salvarli.
Lupin è qui più libidinoso che mai, mosso praticamente dalla sola voglia di saltare addosso alla prosperosa ladra motociclista; più scanzonato, più esibizionista, ma sempre furbo e pronto a risolvere la situazione, come una sorta di Looney Toon antopomorfo e dedito ai piaceri carnali, un personaggio che, come il villain sottolinea, può essere solo o un dio o un completo idiota baciato dalla fortuna.




Mamo, a sua volta, è una figura simpatica e inquietante, un mostriciattolo geniale dal design dir poco ottimo, ricalcato, come apertamente affermato dagli autori, sul look di Paul Williams ne Il Fantasma del Palcoscenico di De Palma. Il classico villain "bigger than life", che lo script si diverte a gonfiare fino all'iperbole con quel piano di dominazione mondiale che passa attraverso un esercito di cloni delle più grandi personalità della storia umana e un passato misterioso, forse quello di un vero essere divino, forse solo quello di un abilissimo imbroglione, non si sa.




Quel che si sa è che, in barba a tutto, la regia si diverte tantissimo a giocare al rialzo, con situazioni sempre più improbabili, fino a culminare in uno scontro finale dove il tasso il tasso lisergico diventa quasi tangibile.
L'animazione, d'altro canto, soffre di un budget non adeguato. La bellezza e la fluidità che si vedranno in Cagliostro qui non ci sono e il livello è più o meno quello di un buon episodio della serie. Alcune trovate stiliste riescono però a tenere alta l'estetica, la quale non delude davvero mai. L'uso di inserti fotografici è uno di queste, la quale contribuisce a rendere la visione psichedelica, ma anche il modo in cui Yoshikawa costruisce i fotogrammi riesce a trasmettere un senso di grandezza che olbitera le mancanze dell'animazione.
A coronare il tutto ci pensa poi la celebre colonna sonora di Yuji Ohno, che qui crea quei componimenti jazz che diventeranno parte integrante dell'identità del personaggio.




La Pietra della Saggezza non ha certo la raffinatezza de Il Castello di Cagliostro, ma l'estrema vicinanza all'essenza della creatura di Monkey Punch e il suo stile lisergico e scanzonato riescono tutt'oggi a renderne la visione godibile e divertente, ossia ciò che serve per apprezzare davvero le avventure di Lupin III.

lunedì 24 giugno 2024

A Ciascuno il suo

di Elio Petri.

con: Gian Maria Volonté Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Laura Nucci, Mario Scaccia, Luigi Pistilli, Leopoldo Trieste, Giovanni Pallavicino, Salvo Randone.

Italia 1967

















---CONTIENE SPOILER---

"Mafia" è un termine dall'origine incerta. Si ritiene che sia nato come sinonimo di "miseria", ma anche di "altezzosità", due parole distinte, due immagini diverse che di certo ben si attagliano all'attività mafiosa, retta dai famosi "uomini d'onore" che radono al suolo tutto ciò che toccano per il proprio tornaconto.
Cosa Nostra, d'altro canto, non è stata neanche la prima associazione mafiosa presente sul territorio italiano, primato che spetta alla Camorra, a quanto pare. Quel che è certo è che le associazioni mafiose di origine siciliana sono assurte, nel corso dei decenni, a vero e proprio simbolo della criminalità organizzata nostrana e questo già prima delle stragi degli anni '80 e '90.
Non è chiaro quando in Italia si sia iniziato a parlare davvero di mafia. Quel che è chiaro è che per decenni c'è stata una forma di ritrosia nel riconoscere anche solo la semplice esistenza del fenomeno mafioso; e questo anche quando la Mattanza insanguinava ogni singolo angolo della Penisola.
Al cinema il termine si è affacciato poco alla volta per descrivere quella realtà che nel sud Italia esisteva già all'indomani della nascita del Regno d'Italia e che nel Secondo Dopoguerra aveva raggiunto una gravità inaudita. Se già Francesco Rosi ne La Sfida usava apertamente il termine "Camorra" per descrivere il crimine organizzato in Campania, sempre lui darà una prima e più veritiera immagine di Cosa Nostra in Salvatore Giuliano; è però con A Ciascuno il Suo che la mafia siciliana trova una delle prime esplicite rappresentazioni su schermo.



Alla base vi è il romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, pubblicato poco prima dell'entrata in produzione del film. E Sciascia aveva già trattato l'argomento mafioso nel celebre Il Giorno della Civetta, del 1961, il quale però troverà solo nel 1968 un adattamento filmico, pur essendo uno dei primi scritti in lingua italiana ad usare il termine "mafia". Termine che, almeno nella trasposizione filmica, in A Ciascuno il suo non trova spazio, senza che però ciò inifici la forza rappresentativa di storia e personaggi.
Perché alla fine quella scritta da Sciascia e portata in scena da Petri è una perfetta storia di mafia. Non quella mafia fatta da banditi che terrorizzano i deboli con la lupara e il ricatto (pur comunque presenti negli eventi), quanto quella mafia intesa come sistema di potere che trae forza dall'omertà condivisa dei luoghi nei quali ha origine. Una mafia fatta di colletti bianchi, di "rispettabili", persino di preti e vedove; quello che la caratterizza come tale è la prevaricazione, l'affermazione violenta degli interessi particolari su quelli generali, con il beneplacito di chi preferisce guardare dall'altro lato.
Lo spunto iniziale della storia è praticamente quello di un giallo: in un paesino in provincia di Palermo, il farmacista Arturo Manno (Luigi Pistilli), noto "femminaro", viene ucciso durante una battuta di caccia assieme all'amico Antonio Roscio (Franco Tranchina). Delitto subito etichettato come "d'onore". Ma il professore Paolo Laurana (Volonté), amico di entrambi, ha dei sospetti: le lettere anonime che Manno riceveva erano vergate usando pezzi de L'Osservatore Romano, lettura decisamente ostica per i sospettati, due contadini semi-analfabeti parenti della ragazzina da lui concupita. Decide così di indagare, andando a scoperchiare il classico vespaio.




La mafia è quella della provincia, quella che ancora uccide con la lupara piuttosto che con il tritolo. Un paragone fatto dallo stesso protagonista nella sua sortita palermitana, dove assiste ad un attentato a mezzo autobomba. Una mafia fatta di piccole persone con desideri ai limiti del miserabile, fatta di notabili piuttosto che di tagliagole e di omertosi piuttosto che di collaboratori veri e propri. Una mafia "dal volto umano" che si confonde con i vicini, con gli amici persino. Petri e Sciascia non celano più di tanto l'identità del mandante dell'omicidio, tantomeno la motivazione: questi altri non è che l'avvocato Rosello, interpretato con eleganza dal sempre ottimo Gabriele Ferzetti. Non un criminale di mestiere, quanto un "mammasantissima" che si unisce a Cosa Nostra per puro tornaconto personale. Il motivo del duplice omicidio? La volontà di sposare la bella cugina Luisa, andata in sposa al Roscio solo perché il loro zio monsignore era inizialmente contrario alle nozze. Il movente iniziale, quello dato dalla denuncia del Roscio dei suoi collegamenti con la mala è in realtà una pura aggravante, come specificato nel beffardo finale.



In questo contesto di piccola meschinità assortita, il Laurana è un personaggio fuori posto, strambo, quasi bizzarro, la cui umanità è sottolineata costantemente sia da Petri che da Gian Maria Volonté, il quale, pur avendo già collaborato in precedenza con i fratelli Taviani, inizia in realtà qui a divenire il volto più celebre del cinema dell'impegno civile.
Un personaggio, il suo, minuscolo: non un eroe, né un santo vista la sua attrazione morbosa per Luisa; di certo un idealista, perso com'è nella sua volontà di fare giustizia e persino deluso dal comportamento del PCI, già all'epoca colpevole di forme di tolleranza verso il male affare che solo decenni dopo daranno i loro frutti. 
Laurana è quasi un alter-ego di Sciascia, del quale incarna l'indole idealista, ma non quella disillusione sottintesa che spesso porta ad una visione pessimistica delle cose; lui, per motivi di racconto, non si arrende davanti alle intimidazioni, né davanti alla presenza di mafiosi veri e propri, continuando per la sua strada imperterrito alta fino alle estreme conseguenze, martire di un sistema dove la correttezza e il senso di giustizia si pagano con la vita, in un'esecuzione mafiosa che ricorda in parte quella con la quale anni dopo verrà ucciso Peppino Impastato.
Ma dove è lo Stato in questa storia di mafiosetti e omicidi? Qui, Petri tira la stoccata ad oggi più vibrante, ritraendolo come un'entità evanescente, che esiste, compare persino, ma non ha davvero nessun peso negli eventi.




I Carabinieri compaiono in appena un paio di scene, ossia quando i due imputati vengono condotti in carcere a mezzo jeep e quando l'ispettore interroga Laurana dopo aver effettuato le riprese dei signorotti al funerale di Roscio. Il minimo indispensabile, un'attività a dir poco marginale che analizza perfettamente il ruolo dell'autorità statale all'interno del gioco mafioso.
In una sequenza decisamente da antologia, ossia quella dell'autobomba a Palermo, Laurana ha poi un dialogo rivelatore con un amico onorevole, interpretato da Leopoldo Trieste, atto a testimoniare il ruolo, anch'esso inesistente, dei parlamentari nella lotta al malaffare di quegli anni. Un parlamentare abituato alla violenza, così come lo è stesso Laurana, che scherza sul fatto che sembra di essere finiti in un film di gangster, ma che quando viene confrontato sulla sua effettiva volontà di perseguire l'aggressività mafiosa, si rivela come un imbelle incapace, arrivando persino a questionare l'effettiva gravità di tali eventi.




Petri si approccia al romanzo in modo libero. La produzione del film, in tal senso, rispecchia perfettamente il suo atteggiamento verso la fonte di ispirazione. Il grande regista si trova infatti, all'indomani del pur ottimo La Decima Vittima, ad un bivio, sul piano artistico. L'esperienza con Carlo Ponti è stata difficile, soprattutto per le sue ingerenze, che hanno portato quella pur perfetta satira di costume a subire diversi compromessi.
L'idea di adattare il libro di Sciascia arriva poco alla volta e quando decide di trasporlo, lo fa in fretta, ma non in modo sciatto. Per la sceneggiatura collabora con Ugo Pirro, che da qui in poi diverrà suo collega abituale andando a sostituire Tonino Guerra. Ma nell'opera di trasposizione, modifica molti degli elementi caratterizzanti la storia, tanto che Sciascia vi si oppone apertamente, ricredendosi solo (e solo in parte) davanti al film finito. Questo perché, almeno inizialmente, Petri non vuole fare un film apertamente politico, un pamphlet con il quale attaccare la classe dirigente, quanto giocare con la struttura da romanzo giallo che già Sciascia tradiva, cosa che lui stesso aveva fatto con il suo esordio L'Assassino.
Di fatto, le variazioni rispetto al giallo classico sono diverse, a partire da quella risoluzione che non viene mai davvero celata; ma anche il progredire dell'indagine viene costruita in modo libero e persino a-logico, con quella lettera che indirizza Laurana al palazzo di giustizia la quale non si sa davvero da chi sia stata inviata.




Il racconto diventa così in tutto e per tutto quello di, nelle parole degli stessi notabili di paese, un "cretino", un uomo che si imbarca in un'indagine della quale tutti conoscono i connotati, tranne lui. Come già sottolineato, a contare non è il chi, forse neanche il perché, quanto il dove il delitto è stato commesso e chi vi si approccia.
Petri asciuga poi il racconto dalle derive grottesche più marcate, creando una narrazione più verosimile rispetto al passato (e a quanto farà in futuro con le sue opere più celebri), ma questo non significa che rinunci ad usare un tono comunque sopra le righe. Il mondo di A Ciascuno il suo è a suo modo iperbolico nella descrizione di personaggi dalle forme grottesche, come quei gentiluomini brutti e sgraziati dai capelli perennemente imbrillantinati o quella vedova bellissima e perennemente pronta allo svenimento; o anche quel Laurana, intellettuale sessualmente represso o incapace come molti dei personaggi di Petri, ma anche goffo e insicuro. 
Racconto che trova così un'espressività inedita che un registro totalmente realistico non avrebbe consentito, ma al contempo risulta vicinissimo alla realtà. Sensazione acuita dalla particolare costruzione della scena che la regia adotta, totalmente basata sugli obiettivi zoom; trovata che attirerà le ire di tanta critica con la puzza sotto al naso, che all'epoca della sua uscita stronca il film per il suo look da pellicola di genere, è in realtà anch'essa un'intuizione vincente: la macchina da presa finisce così per tampinare il suo protagonista, noi spettatori ne diventiamo complici in un gioco quasi voyeuristico, immergendoci al suo fianco in questa Sicilia più reale del reale. 


Rivisto oggi, A Ciascuno il suo ha sicuramento perso quella forza dirompente che lo caratterizzava nel 1967; il fenomeno mafioso si è evoluto sino alle estreme conseguenze, la mafia è divenuta tutt'uno con lo Stato e in tempi recenti si è persino arrivati a rivalutare alcune figure impegnate nella lotta alla criminalità organizzata che pur hanno sacrificato la loro vita per il bene comune. Un film che si limita a descrivere la mafia di provincia non ha di certo più la forza di generare scandalo o aprire le coscienze verso una realtà che si vuole rimuovere oggi forse più che mai.
Paradossalmente, la sua forza è proprio ancora oggi questa, ossia quella di ricordarci come la mafia sia un atteggiamento morale e mentale prima ancora di un fenomeno materiale, configurandosi come un film sicuramente datato, ma non obsoleto.

venerdì 21 giugno 2024

R.I.P. Donald Sutherland

 

1935 - 2024

Con circa duecento ruoli nel suo portfolio, Donald Sutherland è stato uno dei volti cardine del cinema americano e europeo degli ultimi sessant'anni. In grado di spaziare con efficacia tra un genere e l'altro, di imporsi all'attenzione anche in ruoli minuscoli e di lasciare un segno indelebile quando si è trattato di ricoprire quello di protagonista, il suo contributo al cinema è qualcosa di incalcolabile.



M*A*S*H* (1970)




E Johnny prese il fucile (1971)



Una squillo per l'ispettore Klute (1971)



A Venezia... un dicembre rosso shocking (1973)



Novecento (1976)








Terrore dallo spazio profondo (1978)

mercoledì 19 giugno 2024

Lumberjack the Monster

Kaibutsu no kikori

di Takashi Miike.

con: Kazuya Kamenashi, Nanao, Riho Yoshioka, Keisuke Horibe, Minosuke, Shido Nakamura, Kyohiko Shibukawa, Shota Sometani, Reon Yuzuki.

Giappone 2023
















---CONTIENE SPOILER---

Cercare di dire qualcosa di originale con la tematica ultra abusata del serial killer è impresa ardua anche per un regista navigato come Takashi Miike e "Lumberjack the Monster" è il suo tentativo di far dire qualcosa di diverso, benché non proprio originale, alla solita storia su di un killer mascherato inseguito dalla polizia. Il risultato non è certo memorabile, ma neanche disprezzabile.




Akira Ninomiya (Kazuya Kamenashi) è un giovane e brillante avvocato, il quale nasconde un segreto oscuro: è uno psicopatico assassino. Assieme ad un collega medico, infatti, si diletta ad uccidere innocenti per poi usarli come cavie da laboratorio. Il paradosso è però dietro l'angolo: per la città è a piede libero un killer mascherato che lo aggredisce. Sopravvissuto all'attacco, Akira scopre di avere un chip impiantato nel cervello, che sembra limitarne l'empatia. Si mette così sulle tracce del suo assalitore, mentre la polizia si affida per il caso alla bella profiler Arashiko Toshiro (Nanao).




Un serial killer miete le proprie vittime ispirandosi ad una favola per bambini su di un mostro che si traveste da uomo; sembra quasi di leggere la sinossi del Monster di Naoki Urusawa, se non fosse che l'ultima fatica di Miike altro non è se non l'adattamento di un romanzo di Mayusuke Kurai, divenuto un best-seller in patria giusto qualche anno fa. L'influenza del prolifico mangaka si limita a solo qualche sparuto elemento, visto che per il resto "Lumberjack" è una storia con un significato in parte diverso: entrambe narrano di assassini seriali creati dall'uomo, anche questo è vero, ma la struttura e in generale la storia imbastita da Kurai e portata in scena da Miike è totalmente differente, restando in territori decisamente più convenzionali.




Lumberjack the Monster è il più classico thriller con elementi di whodunit che si possa immaginare, con tanto di red herring dato dall'agente Inue e risoluzione catartica con annessa spiegazione dell'antefatto. A mancare è solo il body-count, lasciato sempre fuori scena, con la narrazione che si focalizza principalmente sui personaggi e la tematica sempiterna del concetto di male umano.
Il conflitto è dato da Akira e il suo misterioso persecutore, ma alla base di tutto, in una mezza citazione de Il Gatto a Nove Code di Argento, c'è una ricerca scientifica che ha portato all'isolamento dell' "elemento nel male" presente nell'uomo, in questo caso un chip cerebrale che blocca le funzioni di empatia per arrivare a creare dei veri e propri assassini. Akira è uno di questi "killer fatti in casa", sopravvissuto da bambino ad una coppia di scienziati pazzi ossessionati dalla possibilità di curare il figlio affetto da devianze criminale.
Quello di Akira diviene così un inedito percorso di redenzione, che lo porta dall'essere un assassino spietato e egoista (come esplicitato nella prima scena) ad un uomo dotato di empatia che arriva persino a sacrificarsi per la donna che ama.
Una commistione, quella tra thriller classico e derive fantascientifiche, che finisce per ricordare un altro celebre adattamento al quale Miike ha lavorato, quello di MPD Psycho, ma dal quale si differenzia per un'atmosfera molto meno cupa e morbosa.




In questo coacervo di intuizioni interessanti e derivatività tangibile, il buon Miike fa il suo dovere usando una costruzione della scena che finisce per ricordare tanto cinema americano piuttosto che quello nipponico. La sua mano, semmai, si avverte nell'uso del montaggio sonoro, con il commento musicale che cala quando il protagonista viene distratto per sottolinearne lo stato di alterazione mentale, così come nella descrizione della villa nella quale l'esperimento si è consumato, vera e propria reminiscenza di tanto giallo gotico anni '70, che forse non sfigurerebbe nell'adattamento di qualche opera più mainstream di Edogawa Rampo.




Per il resto, "Lumberjack the Monster" è un thriller canonico e privo di veri punti di interesse, che Miike porta anche in scena con meno svogliatezza del solito, ma che non riesce mai a rendere davvero interessante.

martedì 18 giugno 2024

R.I.P. Anouk Aimée

 

1932 - 2024

Con oltre novanta ruoli accreditati, Anouk Aimée è stata uno dei volti storici del cinema d'autore europeo, collaborando con artisti del calibro di Fellini, Lelouch, Bertolucci e De Sica.
Un attrice dal fascino particolare, bella ma impegnata in ruoli spesso non facili, volto di donne tormentate eppure vitali, personaggi oggi quantomai attuali.

venerdì 14 giugno 2024

La Cina è vicina

di Marco Bellocchio.

con: Glauco Mauri, Elda Tattoli, Paolo Graziosi, Daniela Surina, Alessandro Haber, Pierluigi Aprà, Claudio Trionfi, Laura De Marchi, Claudio Casinelli.

Italia 1967


















Impostosi al pubblico europeo con I Pugni in Tasca, Bellocchio, nel 1967, continua la sua disanima del malcostume celato nella vita privata degli italiani, restando nel territorio dello spaccato famigliare. 
La Cina è vicina, sua opera seconda, è in senso lato una sorta di espansione del nucleo tematico del suo esordio, che allunga lo sguardo dell'autore dalla famiglia nucleare alle dinamiche di quella "famiglia laica" che era ed è il partito politico. Uno sguardo al solito caustico, che parte dal presupposto di disvelarne le ipocrisie malcelate, ma che viene in parte limitato da una capacità di graffiare decisamente inferiore rispetto al primo film.




Bologna, anni '60. Vittorio (Glauco Mauri) è il primogenito di una famiglia di antiche origini nobili, ora neocandidato assessore comunale tra le fila del partito socialista; suo fratello Camillo (Pierluigi Aprà) è invece uno scavezzacollo radicale. Mentre la corsa verso le elezioni incede, Vittorio si scontra con il compagno di partito Carlo (Paolo Graziosi), politico di lungo corso nonostante la giovane età. Questi è poi attratto, ricambiato, dalla di lui sorella Elena (Elda Tottoli), ricca e annoiata, mentre Vittorio cerca di concupire la giovane segretaria Giovanna (Daniela Surina), ragazza di Carlo.




"La Cina è vicina", ovverosia "il pericolo è in arrivo", slogan vergato da Camillo sui muri del partito socialista, figlio di una visione rivoluzionaria figlia dei suoi tempi e che oggi fa sorgere un sorriso amaro. Slogan che Bellocchio riprende assieme a Elda Tottoli (con la quale collaborerà anche nel futuro Pianeta Venere) per creare una disanima dello stato delle cose nella politica di base.
La sinistra è rampante in quel di Bologna; la rabbia dei giovani non è ancora sfociata nelle proteste sessantottine, ma è già presente, limitata agli scontri interni allo stesso schieramento, o, anche, tra singoli rappresentanti di partito. Il conflitto nasce così tra Vittorio e Carlo, con in mezzo i due interessi amorosi e lo scapestrato Camillo a fare da elemento di disturbo ulteriore.




Vittorio è la classe conservatrice che si è riciclata, un vero e proprio populista che (come si scopre nel comizio finale) ha attraversato come una meteora praticamente tutti i partiti per cercare di affermarsi sul piano politico; nobile, laureato (qui si avverte il gap con un'epoca nella quale il titolo di studio era sinonimo di elitarismo) e forbito, è un ipocrita lontano anni luce dal suo corpo elettorale, che si riempie la bocca di frasi elaborate le quali celano solo la sua innata incapacità. Al suo opposto c'è Carlo, vero e proprio proletario, giovane ma non imberbe (a differenza di Camillo), sprovvisto di una cultura certificata, ma perfettamente in grado di interfacciarsi con il popolo i cui interessi dovrebbe curare.
Lo scontro tra questi veri e propri mondi viene colorato da Bellocchio con note di sarcasmo, come nella sequenza nella quale un imbelle Vittorio viene formalmente linciato dalla folla durante un comizio di paese o come quando decide di fare sua Giovanna solo per provare la sua mascolinità. Vittorio è e resterà per tutta la durata un incapace, un omuncolo con modi da grande uomo, un miserabile che si salva solo grazie al titolo e all'affermazione sociale. Peggio di lui, c'è solo Camillo, ragazzetto esagitato privo di veri ideali ma pronto a qualsiasi cosa pur di contestare lo status quo, solo per poi tornare in seno alla famiglia e alla Chiesa, quell'istituzione che dovrebbe deprecare in quanto esponente della sinistra anche radicale, ma sotto la cui ala sembra trovarsi fin troppo bene.
E le due donne? Come il finale sottolinea, non sono che delle figure ancillari, proprietà da custodire e madri il cui ruolo va salvaguardato a prescindere dalla loro volontà.




Se questa famiglia di orgogliosi conservatori travestiti da progressisti rappresenta quell'ipocrisia atavica che appestava (come appesta tutt'oggi) il costume italiano, Bellocchio e la Tattoli non riservano certo uno sguardo più benigno nei confronti del "compagno" Carlo, anch'egli modernista solo sulla carta, un conservatore di fatto che non tiene minimamente in conto la volontà della donna e che in fin dei conti altro non è se non un conclamato arrivista, in grado di condannare il prossimo ad una vita non voluta pur di sistemarsi.
La visione al vetriolo di questo para-rivoluzionario anch'egli ancorato al passato conservatore e cattolico è del tutto complementare a quella del conservatore che finge di rinnovarsi; ed è a sua volta completata dal ritratto dei giovani furiosi, tutte maschere di un impegno politico che in un modo o nell'altro è di pura facciata, che non riesce a nascondere un'anima vacua, una mentalità del tutto egoistica travestita da impegno verso il prossimo.




Nella messa in scena, Bellocchio torna a sperimentare un montaggio veloce, il cui ritmo è incrementato dagli inserti che spezzano le singole inquadrature. La visione è sempre incalzante, ma meno radicale rispetto a I Pugni in Tasca. Sensazione che si avverte, per forza di cose, in tutto il racconto: le derive grottesche, benché gustose, finiscono per spuntare la cattiveria di storia e personaggi anziché renderle più acute; le immagini e le scene migliori sono certamente da antologia, come l'assalto all'auto, il finto attentato alla sede del partito socialista o il finale con l'attentato del gattino lanciato in testa ad un Vittorio impegnato in un discorso populista, ma in generale non si percepisce mai davvero quel grado di cattiveria che si ricerca, in un racconto completo e riuscito, che però non graffia più di tanto.




Tanto che si potrebbe quasi del classico esempio di opera seconda che non conferma il talento mostrato nell'esordio. Se non fosse che La Cina è vicina ha comunque dalla sua parte una innata capacità di rappresentare le dinamiche interne della sinistra in modo veritiero e tutt'oggi attuale; oltre al fatto che, forse, riuscire a bissare era davvero un'impresa impossibile da compiere.

lunedì 10 giugno 2024

Kinds of Kindness

di Yorgos Lanthimos.

con: Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Dafoe, Margaret Qualley, Hong Chau, Mamoudou Athie, Hunter Schafer, Yorgos Stefanakos, Tessa Bourgeois, Krystal Alayne Chambers.

Irlanda, Regno Unito 2024
















A partire da The Lobster e fino a Povere Creature!, Lanthimos ha deciso di portare in scena una serie di racconti meno ottusi e più vicini alla comune sensibilità dello spettatore, almeno per quanto riguarda la loro intellegibilità. Kinds of Kindness, vero e proprio progetto segreto portato avanti quasi di concerto con il film premiato a Venezia 80, riporta invece il suo cinema alle coordinate originali, con un trio di racconti (che in realtà formano un'unica narrazione) decisamente più vicini al quel suo primo cinema che, tra Kynodontas e Alps, era stato in grado di creare storie tanto sconvolgenti quanto volutamente fredde.
Torna quindi la penna di Efthimis Filippou (assente dai tempi de Il Sacrificio del Cervo Sacro) così come l'influenza di Haneke a livello di messa in scena, dove spariscono i grandangoli stroboscopici in favore di altri decisamente più contenuti ed un distacco maggiore rispetto alla storia. E tornano praticamente tutti i suoi temi, in un coacervo tanto visto quanto riuscito.




Si torna così ad un racconto fatto di personaggi mostruosi nella loro estrema umanità, resi orribili dai bisogni impellenti propri dell'essere umano. Bisogni che qui si sostanziano nella necessità di appartenenza, nel bisogno di sentirsi parte di qualcosa di più della singola individualità. Come la famiglia di Kynodontas, anche i rapporti umani di Kinds of Kindness finiscono per sostanziarsi in una forma di manipolazione che degenera nella violenza, in un contesto nel quale l'assurdità del caso finisce per castigare chi cerca di salvarsi.
Tre episodi che compongono di fatto un'unica storia, dove i personaggi di Emma Stone e Jesse Plemons iniziano agli antipodi per scambiarsi gradualmente i ruoli. E dove il misterioso R.M.F. (Yorgos Stefanakos) finisce per fare da trait d'union nelle tre storie.
La prima è la più vicina a quella sensibilità fassbinderiana che l'autore greco aveva già dimostrato in passato: Robert (Plemons) vive una vita cucitagli su misura dal suo capo Raymond (Dafoe), con il quale intrattiene anche uno strano rapporto a tre assieme alla di lui compagna (Margaret Qualley). Alla richiesta di questi di causare un incidente mortale ai danni di un compiacente R.M.F., Robert decide di troncare il rapporto al fine di evitare conseguenze letali.
La seconda è anche la più convenzionale: il poliziotto Daniel (Plemons) entra in crisi a seguito della scomparsa della moglie Liz (la Stone), biologa marina dispersa in mare durante una spedizione di lavoro; ritornata a casa, Daniel inizia a sospettare che si tratti in realtà di un'impostora.
L'ultima storia è anche la più articolata: Emily (la Stone) è membra di una setta new age alla disperata ricerca del proprio messia, che dovrebbe essere in grado di resuscitare i morti; ancora attaccata alla vita che aveva prima di entrare nel culto, entra in crisi quando viene ne viene scacciata.




L'essere umano ha un bisogno innato di inclusione. Da solo, l'uomo non può gestire le coordinate della propria esistenza, senza un punto di riferimento è un corpo che vaga disperso tra necessità e solitudine. Ma appartenere a qualcosa o a qualcuno vuol dire essere subordinato ad esso, esserne dipendente, vivere in sua funzione. Chi accoglie qualcuno esercita su di lui un potere e chi esercita tale potere è un dio onnipotente che può fare o disfare a piacimento una vita. L'amore, di conseguenza, non è che una forza distruttiva atta a piegare l'essere umano ai voleri di chi esercita tale forza di attrazione. Chi necessita amore e controllo è incontrovertibilmente subordinato alla volontà di un amante/demiurgo che ne controlla la vita, verso il quale ha una reverenza religiosa, tanto che per tornare nelle sue grazie è necessario un sacrificio umano.




Un uomo che ha bisogno di qualcosa di altro al quale partecipare, qualcosa di più grande, di trascendentale; e quando ciò è assente, viene ricercato ossessivamente e a sua volta coartato al ruolo di controllore. Il divino, di conseguenza, altro non è che un costrutto dovuto alla necessità di appartenenza dell'umano. La religione, suo corollario, è una società nella società nella quale l'uomo necessita un posto, ma che di per sé stessa altro non è se non un vacuo crogiolo di tic, superstizioni e cerimoniali inutili, atti solo a dare dei punti cardinali per orientarsi in un mondo altrimenti alieno. Corollario del quale tale presenza trascendete necessita al fine di poter "ordinare" la vita dell'essere umano, senza il quale resta presenza ignota.
Su tutto però vige l'ombra del fato. Come nella tragedia classica, gli uomini, per quanto si sforzino, sono sempre schiavi del destino, il quale si rivela beffardo, come in quel finale dove un sorriso sadico chiude una ricerca disperata nel peggiore dei modi. 




Lanthimos porta tutto in scena proprio come una tragedia classica, come avveniva ne Il Sacrificio del Cervo Sacro. E proprio come esplicitato nel finale, narra il tutto con piglio ironico, inserendo nel testo delle venature di grottesco che lo rendono ancora più tragico. La sua è una farsa che però i personaggi vivono come un dramma, la fusione di due registri che opera in maniera più sottile rispetto a La Favorita e Povere Creature! e forse proprio per questo in modo più efficace, andando a fondere la drammaticità funebre (benché anch'essa latamente grottesca) delle sue prime opere con la cattiveria divertita delle ultime.
Un'efficacia di tono che trova però un limite nel racconto stesso. Il grande autore greco, di fatto, non crea nulla di nuovo, si limita a riportare in scena una visione pessimistica alla quale aveva già dato completo corpo in passato. Kinds of Kindness funziona perfettamente come nuova incarnazione delle ossessioni e delle tematiche proprie del suo cinema, ma paga lo scotto di essere arrivato più in là nella sua carriera, in una fase dove l'apice della provocazione è già stato raggiunto. La violenza qui ritratta non riesce così ad essere disturbante quanto vorrebbe, così come la sessualità spinta di alcuni personaggi.




Pur nella sua incapacità di graffiare quanto dovrebbe e nella sua intrinseca frammentarietà, l'ultima opera di Lanthimos si configura lo stesso come una piccola provocazione tutto sommato riuscita, una fusione delle due fasi della sua carriera con la quale fa il punto della situazione, forse alla vigilia di una possibile svolta.

mercoledì 5 giugno 2024

Godzilla Minus One

Gojira -1.0

di Takashi Yamazaki.

con: Ryunosuke Kamiki, Minami Hamabe, Sakura Ando, Rikako Miura, Munetaka Aoki, Kuranosuke Sasaki.

Catastrofico

Giappone 2023














---CONTIENE SPOILER---

Arrivare a settant'anni di carriera, costellati per di più da una quarantina di film e un'infinità di altre incarnazioni multimediali, è un record non da poco persino per un'icona pop. Record raggiunto da Godzilla, che con "Minus One" tocca 33 film escludendo le produzioni americane e che proprio grazie a questa sua ultima apparizione ha superato ulteriori record. "Minus One" è infatti il film giapponese sul godzillosauro di Ishiro Honda di maggior successo della storia, oltre il primo ad essere stato premiato con l'Oscar, ottenuto per gli effetti visivi, di caratura davvero ottima se si tiene conto di come il budget per l'intero film sia l'equivalente di appena 15 milioni di dollari.
"Minus One" è anche il film creato per celebrare il 70°anniversario del Re dei Mostri, riconnettendosi tra l'altro direttamente alla sua prima incarnazione, della quale è una sorta di re-immaginazione. E come film celebrativo che ricrea per l'ennesima volta la figura e la valenza del signore dei Kaiju, è un film tutto sommato riuscito, oltre che davvero spettacolare.




Il setting è pressoché inedito, ossia la fine degli anni '40. Il Giappone è rimasto annichilito dalla Seconda Guerra Mondiale e si trova in una specie di anno zero, con la popolazione stremata e ridotta alla miseria e l'orgoglio nazionale annientato. In questo contesto, il giovane Koichi Shikishima (Ryunosuke Kamiki, già visto in As the Gods Will e nell'adattamento di Le Bizzarre Avventure di JoJo di Miike) è un ex aviatore kamikaze che ha deciso di disertare la missione suicida. Sull'isola di Oda, subisce l'attacco di un Godzilla non ancora mutato, dal quale si salva a stento. Anni dopo, Godzilla ritorna ingigantito dalle radiazioni dei test atomici americani, mettendo a repentaglio quel poco che Shikishima e quelli come lui sono riusciti a ricostruire.




Il Giappone come tabula rasa, Godzilla come forza della natura pronta a portare ancora più in basso un paese già distrutto (da cui il -1 del titolo). Laddove nel classico del 1954 esso rappresentava la paura dei test atomici e di una corsa agli armamenti ossessiva, ora il kaiju è una vera e propria nuova guerra pronta ad annientare del tutto quel poco che è rimasto in piedi o che si è riuscito a riedificare.
"Minus One" è così un film sul Giappone e sul suo popolo, sulla sua  forza d'animo e resilienza che lo porta a superare difficoltà apparentemente insuperabili. Un film patriottico nel senso migliore del termine, creato per celebrare sia l'incarnazione della paura della distruzione definitiva, sia e soprattutto chi non si arrende a tale distruzione. 
Eppure, un film patriottico che, essendo stato prodotto ottant'anni dopo il periodo storico che vuole descrivere, finisce per essere anche vagamente posticcio. Perché di sicuro è posticcio quel colpo di scena nell'epilogo, che rende il finale fin troppo lieto, rasentando i limiti del ridicolo. Così come posticcia è la descrizione della Tokyo dell'immediato secondo dopoguerra, dove tutti i cittadini sono fin troppo buoni e pronti ad aiutarsi a vicenda, ritratto che cozza con le testimonianze di quegli autori che hanno davvero assistito al caos del dopoguerra.



Il dramma dei reduci di guerra viene descritto dall'arco narrativo di Shikishima, praticamente quello di un ronin che deve ritrovare l'onore perduto; ed è qui che il film ha corso il rischio maggiore, ossia quello di idealizzare la figura del kamikaze. Se inizialmente il racconto abbraccia totalmente il punto di vista di quei ragazzi che si rifiutavano di farsi esplodere in guerra a neanche vent'anni, descrivendo tra l'altro con efficacia il PTSD di cui sarebbero stati afflitti, man mano che la narrazione incede sembra voler parteggiare con un sistema che ha utilizzato il concetto feudale d'onore per manipolare le masse fino al massacro, facendo inseguire al suo protagonista l'onore perduto in battaglia. 
Un racconto reazionario? Sicuramente, ma il cattivo gusto è fortunatamente evitato sia quando i reduci più anziani impediscono al più giovane di partecipare al confronto finale con il mostro, sia quando si lascia che lo stesso protagonista decida volontariamente di evitare il suicidio in battaglia.




La sindrome da stress post-traumatico che affligge Shikishima, al contrario, viene descritta con dovizia di particolari e in modo verosimile. La paura della guerra si sostanza nell'incapacità di premere il grilletto persino contro un dinosauro, il senso di colpa del sopravvissuto prende la forma degli incubi notturni. In tale contesto, Godzilla è la guerra, la distruzione insensata e incontenibile contro la quale il singolo è del tutto impotente. Non per nulla, praticamente per la prima volta al respiro atomico del mostro segue un'esplosione a forma di fungo che fa piovere una pioggia nera sul protagonista, in una metafora sin troppo chiara.




In cabina di regia, l'eclettico Takashi Yamazaki esegue il proprio compito con estrema onestà e professionalità. Certo, non ha né la reverenza da otaku di Hideaki Anno per l'originale, né l'indole folle di Ryuhei Kitamura, ma le sue intuizioni di messa in scena sono spesso vincenti. Su tutte, quella di ambientare i primi incontri con la versione mutante di Godzilla in acqua, in modo da aumentare il tasso di tensione e disperazione della scena, poi diretta con piglio fermo, con un risultato adrenalinico e spettacolare. Quando poi si tratta di portare in scena tutto il potere distruttivo del kaiju nell'attacco a Ginza, la regia non si risparmia e si assiste a quella che davvero può essere descritta come una versione moderna della sequenza distruttiva del primo film, dove l'indole nostalgica prende le belle forme dell'uso della musica originale.




Come nuova incarnazione del Godzilla originale, "Minus One" è sicuramente una pellicola spettacolare e riuscita nell'intento di ricreare ciò che esso rappresentò per il pubblico della metà degli anni '50. Come spaccato d'epoca, soffre a causa di un'idealizzazione un po' forzata. In generale, un buon esponente del filone kaiju, ma non il capolavoro che in molti osannano.