di Shinya Tsukamoto
con: Cocco, Shinya Tsukamoto, Yuko Nakamura, Rika Nakamura, Emiko Wagatsuma, Eichi Takahashi.
Giappone (2011)
Vincitore del gran premio nella sezione “Orizzonti” al Festival di Venezia 2011, “Kotoko” rappresenta la rinascita del cinema di Tsukamoto, le cui ossessioni, definitivamente distrutte con il precedente “Tetsuo- The Bullet Man” (2009), vengono ora subordinate totalmente alla caratterizzazione psicologica dei personaggi. Pellicola nata dall’incontro tra il grande regista e la celebre popstar Cocco, “Kotoko” è la sintesi perfetta delle visioni di entrambi gli artisti; Cocco, cantautrice osannata in patria ma sconosciuta all’estero, è un personaggio sui generis: un artista di successo la cui vita è però funestata da una forte depressione, che l’ha portata, nel corso degli anni, a forme di autolesionismo estreme; Tsukamoto si ispirò a lei per il personaggio di Ryoko in “Vital” (2004) e con questa sua ultima fatica traspone su schermo il mondo immaginifico creato dalla cantante, incesellandolo all’interno di una sua personale riflessione sul concetto di maternità e sui rapporti ambivalenti con la persona amata.
Kotoko (Cocco) è una giovane ragazza-madre che
soffre di una singolare patologia: una “doppia visone” che le consente di
avvertire il lato più nascosto delle persone (come la telecinesi di Kyoichi
nella serie “Nightmare Detective”), senza però riuscire a comprendere quale
delle due visioni sia reale e quale frutto della sua immaginazione; stressata
dalla difficile convivenza con il pargolo neonato, la donna cade presto in una
spirale depressiva auto ed etero distruttiva.
L’intera pellicola è lo spaccato
di una mente deviata dalla schizofrenia; la "doppia visione" altro non è che la perfetta metafora dei sentimenti ambivalenti che dilaniano la mente della protagonista: da un lato l'amore per il figlioletto, dall'altro l'odio viscerale verso lo stesso e verso la vita di sacrifici e stenti che comporta; ambivalenza che il personaggio vive anche nei confronti del sesso maschile: disperatamente sola ed in cerca di amore, Kotoko si diverte però a ferire fisicamente chiunque le si avvicini.
Tsukamoto, camera a mano d’ordinanza, riprende totalmente
il punto di vista della protagonista e ne mette in scena i drammi quotidiani; la narrazione avviene
mediante i suoi sensi, la sua visuale “doppia”, e la messa in scena dà vita
alle sue sensazioni e alle allucinazioni di cui è vittima.
Tema centrale è l’ambivalenza, la
dualità propria della natura di ogni persona; Kotoko è una madre amorevole, ma
al contempo una donna stressata dalla maternità; ama visceralmente suo figlio,
ma al contempo non riesce a sopportarlo; la maternità viene mostrata in entrambe
le sue facce: la gioia istintiva generata dall'amore verso il proprio pargolo e lo stress dovuto all’impossibilità di ottenere tempo per sé stessi.
Nel raccontare il difficile
rapporto tra Kotoko e il mondo che la circonda, Tsukamoto divide l’intera
narrazione in tre parti; nella prima esamina il rapporto madre-figlio in ogni
sua sfaccettatura, descrivendo la donna come una madre amorevole, ma anche la sua impossibilitata di vivere una vita ordinaria e scissa tra l’amore per il figlio
e un odio viscerale dovuto allo stress di accudirlo; nella seconda si concentra totalmente su personaggio principale, ne eviscera la psicologia, le paure, ma anche la speranza per una vita "normale", incarnata dal rapporto con lo scrittore Tanaka (interpretato dallo stesso regista); è in questa seconda parte che risiede il cuore dell'opera: uno spaccato psicologico completo e totale di una mente stressata, la messa in scena delle ossessioni di una donna comune alle prese con la drammaticità quotidiana e con la depressione conseguente; e per mettere in scena i drammi della protagonista, Tsukamoto mischia le carte: passa repentinamente da un registro serio ad uno più leggero, costruisce la tensione come in un thriller sovrannaturale e mostra l'autolesionismo della protagonista senza veli; autolesionismo che, come nel precedente "Tokyo Fist" (1995) è il viatico non per l'autodistruzione, ma per raggiungere la coscienza di sé stessi.
Nella terza ed ultima parte, Tsukamoto descrive la deflagrazione totale del personaggio, la perdita di ogni aggancio con la realtà dovuto al deteriorarsi del suo stato mentale; Kotoko prende definitivamente la strada per la follia, e dal punto di vista narrativo sensazioni, allucinazioni e squarci di realtà cominciano a rincorrersi e a sovrapporsi senza soluzione di continuità, ad esprimere la deviazione totale e definitiva del punto di vista del personaggio; escalation che sfocia nella danza tribale, perfetto controaltare di quella mostrata in "Vital": la danza selvaggia della protagonista in stato di trance simboleggia il suo abbandono agli eventi, al caos dovuto alla distruzione della sua esistenza che si è autoimposta; o forse no, forse c'è ancora qualcosa di buono nella vita della giovane donna, come l'autore ci suggerisce nello splendido e spiazzante epilogo.
Solido e visionario, "Kotoko" è la nuova genesi del cinema di Tsukamoto, un autore che al pari della sua creatura più celebre, muta costantemente nei temi e nella forma, cresce, sperimenta, distrugge e si autodistrugge per rinascere, di volta in volta, sempre diverso eppure sempre uguale.
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